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2022-10-12 19:05:12 By : Mr. Runner Wei

E lvis è vivo, si è ribattezzato Nick Cave e gira il mondo in preda a un furore stupefacente. Chi l’ha visto dal vivo sa che sul palco ormai sembra – direi – emozionato , almeno quanto il bambino che leggeva le storie della Bibbia e che in chiesa, quando cantava nel coro, comprò una piccola croce di legno e ci trovò scritto: “Fatta con il legno della vera Croce”. E ci credette. Indemoniato al contrario, posseduto da Dio, come un Blaise Pascal elettrico o una Flannery O’Connor che abbia incamerato i Velvet Underground. Al solito un po’ tenero e un po’ feroce, un po’ raccolto in preghiera e un po’ idiota che sparacchia a salve in un bar, soprattutto un po’ Antico e un po’ Nuovo Testamento, sempre lui, il mento sfuggente, il naso a patata, la voce stridula eppure cool , gli occhi profondissimi, il sorriso timido e quasi imbarazzato di sé stesso, il fisico asciuttissimo, la parola scandita, l’arte sopraffina di coniugare la narrativa con l’allegoria (basterebbe il lontano, perfetto incipit di I Let Love In : “Despair and Deception / Love’s ugly little twins / Came a-knockin’ on my door / I let ’em in”), la figuratività plastica delle immagini che forse gli viene dalla scuola d’arte che frequentò in Australia, la fiducia cieca nel blues che aveva Johnny Cash, l’irrequietezza indisponente alla Dylan, la capacità di coniugare l’energia punk dei Birthday Party al garbo letterario di Leonard Cohen. Un tempo mi piaceva dire che, tanto quanto Ligabue, Nick Cave aveva scritto sempre la stessa canzone, solo che la prima era bella. La battuta aveva una sua verità, pur in un itinerario stacanovista di ricerca che era passato dai pezzi furiosi degli inizi a canzoni espressioniste, quasi brechtiane, come la cover di “Avalanche” o “Well of Misery”, dalla cinematografia nervosa di Henry’s Dream alla maestosa disperazione di No More Shall We Part , dalla sensualità rodiniana di The Boatman’s Call ai deragliamenti garage dei Grinderman fino una serie di esperimenti che sarebbe inutile elencare, compresa l’ultimo azzardo spoken di salmi, voce e synth. Eppure c’è sempre stato un filo rosso. Quando vidi nel 2014 il primo strano docu-film su sé stesso ( 20000 Days On Earth ) rimasi sbalordito in “Jubilee Street” dalla veemenza con cui cantava “I’m transforming, I’m vibrating, look at me now”, dove c’è uno dei tanti presagi della sua vita. Guardatemi, ecco, sto per cambiare, guardatemi. E poi il filo rosso viene davvero reciso, e lui cambia, evolve davvero: vibratile. Sempre lo stesso, sempre più diverso. Per un motivo brutto, quasi banale. La morte.

L’associazione tra spiritualità e disintossicazione come immaterialità sovrastanti e sanamente normative, la creatività come ‘dimensione del mistero’ o come ‘questione di fede’, le canzoni che ‘esistono sulla base delle loro singolari volontà’.

Non c’è molta aneddotica, o trippa per i fan, in questo libro-intervista con il giornalista Seán O’Hagan ( Fede, speranza e carneficina , La nave di Teseo, traduzione di Chiara Spaziani). Qualche disvelamento sulle separazioni da Blixa Bargeld e Mick Harvey, un po’ di illuminazioni sulla nascita di canzoni importanti come “Into My Arms” o “Brompton Oratory” o “Sad Waters”, il resoconto sconfortante di una disintossicazione che al primo incontro lascia Shane MacGowan così interdetto da spingerlo subito a ingoiare due acidi, le lacrime di Lou Reed quando Cave e Hal Willner gli fanno ascoltare una versione bluegrass di “White Light/White Heat”, un breve ritratto della sua infanzia in campagna che ricorda molto Mark Twain (d’altra parte un antico pezzo era dedicato a Saint Huck). Ci sono enfasi abituali, forse ancora più accentuate. Ad esempio l’associazione tra spiritualità e disintossicazione come immaterialità sovrastanti e sanamente normative, la creatività come “dimensione del mistero” o come “questione di fede”, le canzoni che “esistono sulla base delle loro singolari volontà”. Anche quando decide di lavorare la ceramica, Cave – come un demiurgo senile e pomeridiano – non rinuncia a delineare i contorni di un’ossessione, asserendo che di notte sogna i colori, le forme, le allegorie che sta cercando di fare emergere dall’argilla. Ma ci sono anche tenerezze umanissime, come la pagina in cui spera di riuscire a fare ancora a lungo sul palco un knee drop come si deve dietro i fantasmi di James Brown e Patti Smith o la menzione della tinta per capelli nell’armamentario del tour o il ricordo di un libro di favole dark che lesse da bambino (“persino ora, esercita un’influenza su di me”). Eppure al centro, come non è più possibile che non sia, c’è un’assenza che è diventata l’unica possibile presenza, declinata in ogni possibile dimensione creativa. E cioè la perdita del figlio Arthur, precipitato nel 2015 da una scogliera non lontana da casa, accanto a un mulino che – in uno dei tanti echi inquietanti – lo stesso Arthur aveva disegnato da piccolo e che al tempo era stato incorniciato (di nero) dai genitori. Cave ci torna su di continuo, non può fare altrimenti. “Può esistere una specie di morbosa adorazione di un’assenza. Una riluttanza ad andare oltre il trauma, perché il trauma è il luogo in cui risiede la persona perduta e di conseguenza il luogo dove il senso esiste”. E non per crogiolarsi, ma al contrario per liberarsi, liberarci.

Tutto quello che Cave aveva fatto in passato, ogni gesto artistico, ogni parola di dannazione ed espiazione insieme, a posteriori, sembra convergere verso il prisma nero di quella morte, che squaderna un individuo tutto sommato ormai appagato e sopito nel proprio modulo cantautorale e poetico e lo scaraventa nel buio da cui è riemerso verso quella luce che ha sempre cercato. Nella sua poetica tutto ha da sempre questo andamento binario, convenzionalissimo eppure sincero, di maledizione e redenzione. Le pose da tossico innamorato di Gesù, le schitarrate selvagge accostate ai cori angelici, la copertina di Nocturama inondata di luce, l’amore per William Blake, il profilo da predicatore dark in una chiesa sconsacrata, le murder ballads come forma di comprensione della vita perché sempre, ancora una volta, “death is not the end” (come cantavano in coro tutti i suoi amici musicisti al termine di quel glorioso disco). La morte non è la fine perché è l’unica cosa che dia un senso nel momento esatto in cui lo sottrae. E a un certo punto del libro, dopo innumerevoli puntualizzazioni e ricami e ridefinizioni che comunque angosciano e commuovono il lettore, circoscrive la scossa arrivata dal lutto con tre parole difficili da digerire, eppure perfette: “un’energia ribelle, spiazzante”. È come se al voyeurismo da tabloid – il cantante maudit con la sua nemesi terrificante, la droga che si prende la sua rivincita – Nick Cave abbia reagito con la totale denudazione di sé stesso (“Nick the Stripper” era un vecchio pezzo, ma già sulla copertina di Let Love In appariva a torso nudo: glabro, cristologico), ossia l’ostentazione della fragilità, farsi corpo nella sofferenza e nel successo. Essere un catalizzatore dei dolori del mondo. E fare in modo che non siano il burden che ci portiamo dietro dalla nascita. Liberare il male, farsi possedere dall’amore che è lì sepolto, farlo vivere in quello che in una pagina potente Cave definisce “il regno impossibile”. 

Sono tante le narrazioni strazianti successive a quel giorno fatidico. Per dire, gli arrivano lettere di solidarietà che raccontano altrettanti lutti indirizzate semplicemente a “Nick Cave, Brighton”. Ma su tutte c’è una piccola scena che lo colpisce. Alla prima sortita fuori casa dopo la tragedia, Cave va in un ristorante vegetariano dove gli capitava di mangiare spesso in precedenza. La ragazza al banco non gli dice nulla, non manifesta immediatamente la sua solidarietà, gli chiede solo cosa desidera. Quando gli allunga il resto, però, gli stringe la mano più a lungo. Tutto qua. Ecco, quella stretta affettuosa, che pure già esisteva nella sua arte, è deflagrata in una serie di iniziative che possono apparire folli, ossessive, frenetiche. Prima il disco successivo alla morte ( Skeleton Tree , dove tutte le canzoni tranne una, prefiguravano in modo indicibile la perdita: “Scrivi un verso che chiede al futuro di rivelare il suo significato”), registrato in uno stato di trance dentro uno studio in un boschetto francese e immortalato subito in un film ambiguo dove il bianco e nero fin troppo ricercato di Andrew Dominik entra nel viso scavato di Cave per aiutarlo in qualche modo a ridefinire sé stesso e la sua famiglia (lui racconta banalmente d’aver avuto bisogno di qualcuno che gli dicesse cosa fare: mettiti qui, mettiti lì, parla accanto al finestrino). Quindi il confronto pubblico, in un sit-in terapeutico, con In Conversation . Poi il dialogo aperto, catartico per quanto possibile, con la newsletter di risposta ai lettori “The Red Hand Files”. Quindi Ghosteen , il disco in cui davvero affronta il lutto e in cui è convinto che riposi letteralmente lo spirito del figlio. Nel disco – anche grazie al lavoro di Warren Ellis, ormai qualcosa di più di un membro della band – apre la forma canzone di un tempo a un tono più aereo, vorrei dire più nebuloso (in un altro passo del libro parla della possibilità di conoscere la bontà solo attraverso la sofferenza, attraverso un passaggio biblico sul Dio delle nuvole), in cui il suo parlato libero dal pianoforte e dalla chitarra si muove dentro i sintetizzatori e i rumori e le litanie alla ricerca di un fantasma adolescente, dentro una musica che anche lui orgogliosamente definisce “informe e fragile”. 

Sembra in realtà un processo in continuo divenire (è un mantra: “La perdita di mio figlio è una condizione, non un tema”; “La perdita di mio figlio mi definisce”; “Dio è il trauma stesso”; “È successo a noi, ma in realtà è successo a lui”) come probabilmente è per chiunque abbia subito una perdita del genere. E infatti, dopo tutto questo, che pure avrebbe sfiancato un gigante, ecco la tumultuosa ricerca del contatto con il pubblico in una serie di tour post-pandemici che sono diventati una messa laica, un grido di riscatto, una celebrazione del sangue che gli scorre nelle vene, in cui Cave all’età di sessantatré anni rievoca il fantasma di un Elvis dolente, esplodendo sul palco con un’energia che non può non mettere i brividi. All’Arena di Verona era visibilmente irritato perché non riusciva a trovare il contatto con il pubblico dal palco distante, poi ha trovato un modo per scendere e lasciarsi letteralmente divorare dalla folla mentre cantava intere canzoni immerso tra sconosciuti, un lavacro fatto di mani e schermi protesi in cui anche un verso antecedente e semplicissimo come quel “Can you feel my heart beat?” da “Higgs Boson Blues” (una canzone-ipnosi degna di Robert Johnson) diventa un momento di condivisione e, fondamentalmente, di amore per la vita e gli esseri umani. A un tratto dice, coraggiosamente: “È come se l’esperienza del lutto avesse in qualche modo allargato il mio cuore”. Non è un punto facile da raggiungere e ce l’ha fatta in pubblico, insieme al pubblico – elvisianamente, narcisisticamente – in una delle storie più limpide e belle della storia del rock’n’roll.