La mattina del 18 novembre 1983 Anna Maria Fusco, maestra 21enne delle elementari, fu rapita mentre si recava, come di consueto, con la sua Alfa Sud, alla scuola primaria di San Pietro in Bevagna, sulla costa ionica del Salento del comune di Manduria, provincia di Taranto. Il riscatto richiesto: 877 milioni di lire. Da quel giorno è rimasta sotto sequestro per sette mesi, liberata solo dopo che la sua famiglia ha pagato. Però dopo il rilascio, Anna Maria ha identificato i suoi rapitori: il processo è iniziato nell’85, i 14 imputati e sono stati tutti condannati con una pena dai 28 anni in su. I nomi non sono citati nel libro, né lei li ha mai menzionati nelle interviste. “Una questione di sicurezza”. Dopo anni, uno di loro, finito sulla sedia a rotelle e ormai quasi non vedente, le ha chiesto il perdono e lei l’ha concesso. Di conseguenza, il Presidente della Repubblica italiana lo graziò, dato che vi era il perdono da parte della vittima. A distanza di oltre trent’anni, Anna Maria Fusco ha deciso di raccontare la sua storia; qui sotto uno stralcio del suo libro in cerca di editore, “Verità nascoste”.
E’ una mattina tipicamente autunnale, grigia, sciroccosa, insignificante. Mi alzo a malincuore. Sono stata fino alle due con la mia solita comitiva. Vorrei restare a letto a dormire ancora un po’, ma, come si usa dire, il dovere mi chiama. Mi lavo. Indosso un maglione bicolore rosso-viola laminato, collo alto su una gonna in lana rossa, collant dello stesso colore e stivali neri. Raccolgo i capelli legandoli con un fermaglio. Poi il solito rituale: orologio, bracciale ed il pezzo più prezioso per me: un brillantino regalatomi da mio fratello. Prendo una cappa impermeabile anch’essa bicolore: interno rosso ed esterno nero. Saluto la mamma e con la cartella dei documenti scolastici mi avvio in macchina, un’Alfa Sud bianca.
Sono le ore 8,15 e come facevo abitualmente da circa due mesi, mi reco a San Pietro in Bevagna, una località balneare dove la scuola accoglie due cosiddette pluriclassi, in una delle quali insegno. A differenza delle altre mattine non ho voglia di ascoltare lo stereo, perché una voce insolita occupa i miei pensieri e mi intimorisce. Nonostante tutto proseguo. Ho già percorso due chilometri, mi trovo su una discesa pericolosa. Odo una frenata brusca. Istintivamente guardo nello specchietto retrovisore, ma non ho tempo. Un urto troppo forte mi fa sfuggire il volante e con la mia macchina, esco fuori strada, precisamente tra l’asfalto e il terreno coltivato ad oliveto. Sono costretta a fermarmi.
In un tempo brevissimo volgo lo sguardo a sinistra e vedo nell’auto investitrice dei volti incappucciati. Mi basta per capire cosa sta per accadere: vogliono sequestrarmi.
I pensieri che si accavallano sono di natura istintiva ed emozionale. Tornerò viva? E di conseguenza l’istinto di sopravvivenza mi spinge alla fuga nella vicina campagna. Una fuga assurda, perché all’indietro e con avanti tre uomini incappucciati. Grido, ma in effetti, credo di gridare, poiché la voce non esce. La pistola puntata dal più alto dei tre mi costringe quasi a consegnarmi agli altri due che ormai mi fiancheggiano. Capisco che da quel momento in poi sono indifesa perché mi trovo davanti alla legge del più forte, ma solo perché armati e sono in tre.
Il mio stato d’animo è quello di una persona che si rende conto che la vita non le appartiene più, che improvvisamente le sfugge di mano sentendosi impotente e sofferente. Sento il bisogno di affidarmi a qualcuno, mi consegno alla volontà di Dio e dico fra me e me: – Signore, se Tu vorrai, tornerò viva.
Mi afferrano e mi costringono, mentre contemporaneamente mi viene infilato in testa un sacco, a prender posto nella parte posteriore della loro auto. Due di essi si posizionano sui sedili anteriori, mentre un terzo vicino a me puntandomi una pistola alla tempia e intimandomi di non muovermi. La macchina riprende la marcia velocissima, sono terrorizzata; dopo un tempo imprecisato un violento testacoda, i miei battiti cardiaci sono alle stelle. Mi pulsano fortemente le tempie, mi sento raggelare; la corsa procede verso ciò che sarà il mio calvario.
Ad un tratto l’auto si ferma ed io sono costretta a strasbordare in un’altra macchina nell’interno della quale vi sono due individui, uno al volante, l’altro sul sedile posteriore accanto a me. Ho un impellente bisogno di urinare; con voce fioca perché ancora soffocata in gola, lo comunico e chiedo di fermarsi, ma il rapitore che mi è accanto mi risponde sottovoce di farmela addosso e sfiorandomi con un coltello il torace,ancora una volta mi intima: -Stai ferma, altrimenti sarò costretto ad infilzarti.
Mi bagno tutta ed al calore dell’urina segue il gelo che mi serpeggia per tutta la schiena oltre lo schifo e la perdita di pudore. Poco tempo prima dell’imbrunire, l’auto a bordo della quale viaggio si ferma. Attraverso la trama del sacco intravedo una casa colonica in zona montuosa; mi fanno sostare un attimo nel suo locale a pianoterra dove si trovano dei tufi, poi attraverso una scala in muratura, mi accompagnano al piano di sopra dove mi ritrovo appoggiata ad una parete. La mia intimità inizia ad essere oltraggiata dalla loro presenza, facendomi vergognare. Mi faccio nuovamente addosso mentre sento dei rumori intorno a me, molto probabilmente stanno preparandomi una brandina.
Poco dopo giunge un quarto individuo che, posando le mani sulle mie braccia, mi cambia di posizione, questa volta con il viso rivolto alla parete della stanza, poi, togliendomi il sacco dalla testa, rapidamente mi infila un passamontagna in maglia di lana che mi copre interamente testa e volto.
Per me è buio completo; poi lo stesso, agguantandomi di nuovo le braccia, mi dirige verso la brandina su cui mi siedo col suo aiuto ed alla quale mi incatena il piede destro servendosi di una catena e di un lucchetto. Sento allontanarsi gli altri tre, ora sono sola con quest’ultimo. Si siede accanto. Mi sento più forte. C’è soltanto lui. Mi sembra naturale, spontaneo aggrapparmi alle sue braccia, penso: è una persona, non un animale!
Con uno spintone mi stacca. Si alza, si avvia forse in un’altra camera, ritorna, mi butta da una certa distanza qualcosa sulle gambe. – Aaaah! – gli urlo. – Mangia, è un pezzo di pane – mi risponde con tono grave, quasi stizzito, senza una nota di umanità.
Le mie abitudini cominciano a cambiare. Fino ad allora non mi ero resa ancora conto di non aver pranzato e che erano circa le 19 ( avevo chiesto l’orario precedentemente ad uno dei tre), fra poco avrei dovuto cenare. Mangio l’abbondante pezzo di pane di tipo casareccio, di giornata, conservandone un pezzetto in tasca alla gonna. – E’ ora di dormire – mi ordina in tono autoritario.
Batto i denti. Prima ridevo quando sentivo qualcuno che batteva i denti per il freddo, non ci credevo, perché non l’avevo mai provato, per me era impossibile. Comunico il mio tremore. E lui: – Dormirò accanto a te così i corpi si scaldano. Avrei voluto tagliami la lingua. Ora sono costretta a subire quel contatto così ripugnante, ormai sono in trappola e mi sento ammattire. Nel sistemarci si accorge che in tasca ho il pezzetto di pane. S’ infuria e mi minaccia: – Volevi prendermi in giro, cosa credi, di essere liberata subito, pensavi di far eseguire le analisi sul pezzo di pane, non fare la furba!
Non contento della sfuriata, mi viene addosso come per violentarmi, ma io mi dibatto, mi ribello e mi lascia finalmente in pace. Sono fuori dalla vita; mi sento un muride sballottato tra gli artigli del felino; la mia mente non riesce a produrre più nulla. Ancora tremante, questa volta anche per l’accaduto, mi addormento. Mi addormento sul margine della brandina per evitare quel fiato putrido, pregno di nequizia, con l’angoscia del presente e con l’incertezza del futuro.
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