In questi giorni, dopo il crollo di una parte del viadotto Polcevera, con INGENIO abbiamo cercato di pubblicare una serie di approfondimenti tecnici - a cominciare da alcuni articoli di Riccardo Morandi - per aiutare chi opera nel settore a comprendere chi fosse l'ing. Morandi stesso, le caratteristiche del ponte, le manutenzioni realizzate, i punti di debolezza e di forza. Uno dei temi più interessanti riguarda proprio l'intervento di manutenzione del 1992 su uno degli stralli, quello della pila 11, una manutenzione effettuata durante le “Colombiadi” di Genova, quindi in un momento di grande traffico per il capoluogo ligure.
Abbiamo ritrovato - grazie a un lettore - due pubblicazioni tecniche:
Entrambre descrivono tutto l'intervento con particolari diversi.
Abbiamo anche intervistato l’ex Direttore della Ricerca e Manutenzione di Autostrade, Gabriele Camomilla, uno degli autori e quindi delle figure che seguirono l’intervento.
Ecco il testo e in allegato l'articolo
Gabriele Camomilla: Il ponte era oggetto di ispezioni accuratissime e costanti, anche alla sommità dei piloni 90 metri dal suolo.
Durante uno di questi controlli scoprimmo che sull’ultima porzione di uno strallo, in cima alla struttura del numero 11, sullo strallo lato Genova (lato nord), il cemento aveva lasciato scoperta una porzione d’acciaio e questo aveva portato alla corrosione per dissoluzione di circa il 30 % dei trefoli. Va sottolineato che le azioni a cui l’acciaio portante dello strallo lavorava (circa 7.000 kg) erano di gran lunga inferiori alle capacità di resistenza dell’acciaio che lo costituiva (15.000 kg).
Il difetto costruttivo era questo: i fili ad altissima resistenza avrebbero dovuto essere tra loro tutti distanziati per essere tutti avviluppati dal calcestruzzo, che ha un notevole potere di protezione dalla corrosione delle strutture di acciaio. A causa di un difetto costruttivo, invece, tutti questi fili si sono trovati impacchettati in sommità alla pila, per cui non erano bene avviluppati dal calcestruzzo. Questo consentiva il passaggio di una parte di aria, e quindi l’attacco dell’acciaio.
In pochi giorni avviammo l’intervento. Allora non c’era una legge che burocratizzasse la manutenzione, quindi fu relativamente semplice farlo, a parte le discussioni sul “come” farlo. Autostrade aveva una sua società di costruzioni, Italstrade Spa sempre IRI con la sua filiale locale ISA Appalti, e con essa avviammo l’intervento.
Gabriele Camomilla: Perchè stiamo parlando degli anni sessanta. Perchè stiamo parlando di uno dei primi progetti di ponti strallati al mondo che ha dato poi le basi per uno sviluppo tecnologico sui ponti strallati a livello internazionale. Perchè in quegli anni non c’erano le tecnologie di oggi, in cui i trefoli sono inseriti in guaine in polietilene pesante ed ingrassati. Da non confondere con le abituali tecniche di protezione dei precompressi “normali”, basate su trefoli inseriti in guaine d’acciaio in cui sono pompati cementi speciali (sia per prestazioni che per reologia) per la protezione dell’acciaio.
Nello strallo la protezione era costituita da conci in calcestruzzo che a strallo tesato, venivano precompressi con appositi ulteriori cavi, che impedivano che detto rivestimento protetivo andasse in trazione e si fessurasse al passaggio dei veicoli e/o per motivi di temperatura o altro Quella era la tecnologia innovativa morandiana per proteggere l’acciaio in un ambiente soggetto a forti aggressioni anche per come funzionano gli stralli che sono deg i appoggi “dall’alto”, mobili sotto traffico.
Il calcestruzzo era precompresso, per garantire l’assenza di fessure; solo in segito si sono sviluppati gli stralliseparati ad “arpa” ricoperti di polietilene pesante come quelli usati nella riparazione. La precompressione però la rendeva difficile come rende difficile qualsiasi demolizione incontrollata.
Su questo vorrei evidenziare un aspetto di cui si è parlato in questo giorni molto poco e in cui invece si è fatto molta comunicazione allarmistica.
Molti ponti in cui si raccontano problematiche di crollo imminente non stanno crollando ma hanno problemi sui copriferro carbonatati dalla CO2 e non più ptotettivi dei ferri esterni che per questo arrugginiscono ed espellono, con l’aumento di volume degli ossidi che si sono formati, la parte esterna del calcestruzzo non più protettiva Lo spessore di questi copriferro è molte volte più basso dello spessore delle protezioni degli stralli del Polcevera che, per carbonatarsi completamente, hanno bisogno di più dei 60 anni passati. Tutti questi ponti aggrediti, ma ancora portanti, avrebbero bisogno di una manutenzione che ricostruisse le protezioni utilizzando, per esempio, malte reoplastiche a ritiro compensato frutto del genio del prof. Collepardi e la protezione catodica delle armature, altra eccellenza italiana applicata per esempio da me su alcuni ponti del vecchio Bologna Firenze e più recentemente dall’ANAS sul viadotto Sfalassà della Salerno Reggio credo nel 2011, prima che si interrompesse il suo completamento.
Ci sono tecnologie oggi che consentono di poter rifare i copri ferro con una protezione catodica delle armature con interventi molto semplici. La tecnologia di intervento per contrastare il degrado e fare manutenzione è assolutamente disponibile, ma nessuno la impiega in modo sistematico; ripeto comunque che i ponti in linea di massima non corrono pericoli di crollo; certo dovrebbero essere attentamente valutati da esperti terotecnologi il cui unico vivaio oggi è costituito dai sorveglianti della rete autostradale a pedaggio, quella che si vuole statalizzare.
Gabriele Camomilla: In quel periodo c’erano le Colombiadi e, ovviamente, occorreva trovare una soluzione che non portasse a problemi del flusso viario. Studiammo una soluzione che ci permise di non chiudere il traffico se non per alcune ore notturne. L’idea di base venne all’Ing. Pisani che era stato il calcolatore di Morandi e che fu da me interpellato come esperto conoscitore della tecnica e del calcolo degli stralli, assolutamente allora ancora poco conosciuta 1992.
Dal punto di vista tecnico, se avessimo interrotto anche per poco tempo un solo strallo ci sarebbero stati problemi di azioni trasversali da parte dei tre restanti, non più equilibrati, che avrebbero ruotato l’impalcato dell’antenna con problemi sugli impalcati portati anche gravissimi (il crollo attuale ne è una testimonianza tragica) potuti verificare problemi di rotazione, e questo avrebbe portato al crollo del ponte. Allora di decise di intervenire trasferendo gradualmente il carico dei tiranti interni su elementi esterni di tipo allora innovativo, ma già sperimentato in alcuni ponti strallati successivi: La società Alga di Milano era un’abile produttrice di questo tipo di tiranti. La tecnica descritta nel ns articolo pubblicato ad un convegno mondiale a Shanghai è la seguente.
Per prima cosa abbiamo posizionato delle cravatte in acciaio sugli stralli sulle quali posizionare. aderenti ai medesimi, dei dei cavi lunghi (neri come il rivestimento plastico),che andavano da un ancoraggio all’altro dell’impalcato portato dalla pila, passando sopra di essa. Dopo di che nella parte bassa degli strallli, all’attacco con l’impalcato si è ancorata cravatta più potente agli stralli originali, a cui sono stati ancorati dei cavi definiti”corti” , che andavano da quel punto allo stesso aggancio dei cavi lunghi.
A questo punto, tramite degli agenti chimici, è stata eliminata la protezione in calcestruzzo dei tiranti interni che sono stati messi a nudo stralli interni. Operando su tutte le posizioni , tagliando pochi trefoli alla volta (1000Kg di carico), detti carichi sono stati presi dai cavi corti e trasferiti a quelli lunghi finali Pian piano, così operando, si è trasferito il carico tutto il carico ai cavi lunghi esterni. Con un’azione che è durata qualche giorno si è fatta la sostituzione ed è rimasto nei punti vecchi di ancoraggio un moncherino non funzionane che è stato ricoperto. In questo modo si è evitata la torsione del ponte e quindi il crollo. (NdR: quanto dei descritto dall’Ing. Camomilla in forma breve lo trovata con dettaglio nell’articolo allegato).
Gabriele Camomilla: La sorveglianza continua nasce in Italia con il crollo del viadotto di Ariccia. Il 18 gennaio del 1967 una arcata centrali del Ponte di Ariccia ricostruita alla meglio nel dopoguerra, cadde rovinosamente e vi furono morti e feriti. Si era così poco abituati a questo problema che si pensò, inizialmente, a un attentato (LINK per saperne di più).
Fu a seguito di quel crollo che si evidenziò l’esigenza della sorveglianza (non la manutenzione ancora)e nacque una norma che prevedeva che tutti i ponti dovevano errore controllati trimestralmente e, di conseguenza, le Autostrade a pedaggio, neonate, crearono uffici tecnici speciali in loco per fare detta sorveglianza. In seguto, con la creazione nella Società Autostrade della Direzione Studi e Manutenzione sulla base delle segnalazioni si creò un sistema scientificamente articolato che definiva il dove, ed il quando intervenire e come farlo: era nata la terotecnologia dei ponti. Naturalmente valutavano anche quanto sarebbero costati gli interventi, molti dei quali originali e specifici per riparare o mantenere. In essi le tecniche di intervento sui copri ferro, le più diffuse, ma anche quelle sui giunti, sugli appoggi e poi sui ritegni sismici reversibili, che hanno reso i ponti autostradali potenzialmente immuni dal terremoto per linee omogenee, cioè ad affidabilità sismica dello stesso livello.Le manutenzioni seguivano quindi queste direttive pianificate e preventive:
Tornando al ponte Polcevera il controllo ordinario si faceva andando frequentemente in cima all’antenna per vedere come era la situazione e di li si scendeva controllando il tutto.
Si eseguivano controlli essenzialmente di tipo visivo e non distruttivo eseguiti con grande frequenza. Questo prima dello scoprimento del difetto sulla pila 11; le altre due furono passate al setaccio con prove tradizionali di carbonatazione con fenoftaleina e rilievo dei difetti a cui furono aggiunti dei rilievi di deformazione esterni da trasmettere in un computer di stoccaggio. Poi si definirono dei controlli innovativi periodici basati su misure di flusso magnetico in grado di rivelare la variazione delle tensioni nei cavi: un aumento avrebbe significato potenziali riduzioni di sezione resistente. All’epoca la precisione dell’analisi modale dei modi di vibrare non era ancora ad un livello di precisione accettabile.
Naturalmente le due pile 9 e 10 risultarono in perfette condizioni; solo sulla 10 si aggiunsero delle placcature esterne in acciaio per proteggere alcune disgregazioni superficiali della protezione che però non interessavano i tiranti.
La tecnica a flusso magnetico era stata messa a punto negli anni 80 da un ingegnere romano, di cui non ricordo il nome, da noi interpellato per valutare la precompressione residua di alcune travi precompresse, fatte cadere e danneggiate dalle scosse sismiche mentre erano in fase di montaggio sul viadotto Tagliamento in costruzione dell’Autostrada Udine Carnia, la stessa tecnica usata per i tiranti del viadotto genovese Questo ci consentì di migliorare l’attività di monitoraggio. Il metodo infatti era molto sensibile, a differenza dell’analisi modale dell’epoca, che di fatto da risultati apprezzabili quando il danno è già visibile ad occhio nudo.
Gabriele Camomilla: Come ho detto sia della sorveglianza con sistemi di rilevamento di statoil più possibile obiettivi e sulle tecniche di riparazione
Il Italia è nata la prima autostrada al mondo. Siamo stati noi con l’Impresa Puricelli di Milano, divenuta poi Italstrade a “inventare” e poi insegnare negli anni 20 e 30 come si realizzavano le autostrade. Dagli anni sessanta l’autostrada Firenze Bologna divenne il riferimento delle scuole di ingegneria dei ponti di tutto il mondo. Nei grandi 80 ponti presenti erano state adottate di fatto tutte le diverse tecnologie dei ponti che si conoscevano allora. Questo fu fatto al fine che ogni impresa titolare di lotto realizzasse quella in cui era più esperta (un viadotto ad arco gigantesco lo fece proprio Morandi). Ne derivò una varietà di tecniche amplissima, realizzata con velocità record e, naturalmente, con una serie di problemi successivi quando l’arteria divenne “l’aorta” d’Italia in sviluppo.
La manutenzione migliorativa divenne una necessità ed una palestra ineguagliabile fu proprio il Bologna Firenze con i suoi mille problemi diversificati da risolvere con un traffico sempre crescente che non poteva interrompersi
Fu creata quindi una direzione che oltre a occuparsi della manutenzione doveva fare ricerca, individuare tecniche di controllo e monitoraggio, tecnologie di manutenzione. E non ci occupavamo solo della sicurezza strutturale dei ponti ma di tutti i temi collegati alla gestione delle infrastrutture: per esempio le gallerie, i manti autostradali, le barriere di sicurezza, la prevenzione dei fenomeni franosi, , la segnaletica ed il verde specializzato per l’uso stradale…
Gabriele Camomilla: Qualcuno lo propose, ma in primo luogo la fierezza certa sul valore della struttura non disgiunto dal problema della demolizione comunque molto pericolosa per una struttura di quelle dimensioni, che passava sopra ferrovie e abitazioni, in mancanza peraltro di un’alternativa della viabilità genovese. La demolizione implicava una ricostruzione. Decisiva fu l’esperienza dell’Appennino dove, da giovane ingegnere, a seguito della sostituzione di un viadotto di tre campate in cui si erano scoperte le prime carenze di iniezione nelle guaine di precompressione, proposi, e fui esaudito dal capo di allora, di demolire le travi danneggiate con prove di carico controllate. Scoprimmo che le resistenze residue erano ancora abbondantemente superiori ai carichi previsti in progetto. Questo fatto mi permette di fare le osservazioni riportate prima sulla affidabilità effettiva dei ponti “crollanti” per decisione mediatica o per non conoscenza delle soluzioni da applicare.
Vorrei ricordare un ultimo particolare. Il ponte fu costruito da ANAS, e non da Autostrade a cui fu poi ceduto insieme con l’incarico di adeguare alcuni tracciati ancora da raddoppiare o da completare secondo la lungimirante scelta dei governi di allora in quanto Autostrade diveniva titolare diuna rete a pedaggio articolata che poteva spendre i proventi del pedaggio, ricchi in certe regioni, per realizzare infrastrutture in zone non in grado di finanziarle direttamente
Si finanziava la costruzione di nuove autostrade con le entrate delle autostrade esistenti. Così si è costruito gran parte del nostro patrimonio di autostrade.
In allegato trovate gli articoli di dettaglio sull'intervento fatto sul viadotto polcevera.
A questo LINK l'approfondimento speciale realizzato da INGENIO sul crollo di parte del ponte Morandi
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