"Autofiction" di Iacopo Barison, la storia di una generazione al di là degli stereotipi - ilLibraio.it

2022-10-12 09:54:09 By : Ms. Doni Wu

Iacopo Barison torna in libreria con il romanzo “Autofiction”, una storia con cui si riconferma cantore di una generazione spesso raccontata in modo stereotipato, aprendoci le porte e svelandoci il mistero che si cela dietro ogni famiglia felice e infelice e a modo suo – Su ilLibraio.it un estratto

Era il 2015 quando Iacopo Barison, classe 1988, veniva presentato al Premio Strega con il suo esordio Stalin + Bianca (Tunué). Nel frattempo, i suoi articoli sono apparsi su numerose testate; ha collaborato con Esquire e SBAM!; e il suo racconto Less, Plus è uscito su McSweeney’s, la prestigiosa rivista fondata da Dave Eggers.

Dopo aver pubblicato nel 2018 per Fandango Libri Le stelle cadranno tutte insieme, Barison nel 2021 ha curato l’antologia Manifesto. Ora l’autore torna in libreria, sempre per Fandango Libri, con il romanzo Autofiction, una storia con cui si riconferma cantore di una generazione spesso raccontata in modo stereotipato, aprendo le porte e svelando il mistero che si cela dietro ogni famiglia felice e infelice e a modo suo.

La vicenda è infatti quella di Orlando e Sofia, due gemelli figli di Agata e Leone, registi cult e di avanguardia, leggendari ideatori de La musa divoratrice, morti prematuramente in un incidente aereo. Orlando lavora per inerzia al Museo del Cinema come social media manager, ma è incapace di comunicare, Sofia ha ereditato (forse) la vena creativa dei genitori e si prepara alla sua prima personale di (in)successo nella galleria di Monica, la sua compagna.

Lui non ha una relazione, né amici e consuma il proprio tempo mangiando da solo ravioli al ristorante cinese e guardando porno, lei è una fedifraga compulsiva, immobilizzata dalla paura di fallire. Alle loro spalle, l’ombra lunga della morte improvvisa dei genitori, quando erano appena ventenni, che li ha lasciati eredi di una casa piena di scatole e segreti, e incapaci di diventare adulti.

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Quando il Museo del Cinema propone una mostra in celebrazione di Agata e Leone, e Orlando trova una misteriosa sceneggiatura dal titolo Autofiction, che racconta la loro vita con la presenza del personaggio di un terzo fratello, i nodi delle loro due vite in sospeso vengono al pettine, mettendoli di fronte a delle scelte inevitabili.

Come si smette di essere figli, come si diventa adulti? E se non si fosse in grado di farlo? Chi sono sul serio i nostri genitori, chi erano quando si sono incontrati, si sono innamorati e hanno deciso di condividere il proprio tempo?

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto tratto dal romanzo:

In quella casa ci sono tre rane, cinque fra piccioni e colombe, una tartaruga, due gatte e quattro persone, ma il totale sta per aggiornarsi. Arriva la figlia dei vicini, radiosa e puntuale, come il giovedì sera precedente. Srotola la sciarpa, sbottona il cappotto di lana e Orlando pensa che fuori deve fare “molto freddissimo” se la baby-sitter si è imbacuccata per attraversare la strada. La sua nuova fissa è agganciare “molto” ai superlativi assoluti, gli piace, e gli piace che lei lo baci sulla fronte e poi sulla guancia, anche se finge di no. Sofia riceve il medesimo trattamento, senza opporsi: pensa che è bello venire baciata e lo esprime apertamente, con un sorriso sincero, quindi asseconda la propria natura da femmina alfa e saltella sul posto e si vanta di conoscere i numeri fino a 11, il totale dei loro animali domestici. Per confermarlo inizia a contare. Vorrebbe mantenere saldo il livello di attenzione nei suoi confronti, e magari sentirsi unica e speciale, però la madre la interrompe a 9: “Non ora, Sofia”.

I bambini giocano con le due gatte siamesi, Teoria e Pratica, guidando a turno un topo telecomandato di plastica. Teoria spera di catturarlo allungando la zampa. Pratica gli salta direttamente addosso, e l’avrebbe anche preso, se non fosse che viene distratta da Heidegger la tartaruga. Nel frattempo, Agata dà semplici istruzioni alla baby-sitter e si assicura che le abbia capite, non perché non si fidi della sua capacità di comprenderle, ma perché teme di non sapersi spiegare. Apre il frigorifero, accende il forno a scopo dimostrativo. Le dice: “Vanno matti per le patatine. Noterai che le inzuppano nell’acqua, prima di mangiarle. Tu non farci caso, per qualche strana ragione gli piacciono così. Solo impediscigli di bere l’acqua in cui le inzuppano, oppure fagliela bere ma ricordagli che è una cosa schifosa. È tutto chiaro?”.

“Molto chiarissimo”, grida Orlando alle loro spalle.

“Sai”, aggiunge Agata, “con loro sto provando a isolare cos’è sbagliato per me, in base ai miei gusti e al mio retaggio personale, rispetto a ciò che è sbagliato in senso assoluto. Mi segui?”

La baby-sitter annuisce: “Sì, credo di sì”.

“Per esempio mangiamo carne. Non molta, però la mangiamo, nonostante viviamo… in mezzo a… insomma, lo vedi. Siamo circondati dagli animali, e ci piacciono, e ogni tanto ci piace anche mangiarli.”

“I contadini vivono a stretto contatto con gli animali, e li mangiano.”

“Sì, giusto, è che noi non siamo… Orlando, lascia stare tua sorella, così le fai male. Scusa, ho perso il filo. Quel topo telecomandato li innervosisce sempre. Cosa stavo dicendo? Ah sì, noi non siamo dei contadini, ma il paragone ha senso. Ti ho già spiegato come si accende il forno?”

A dire il vero Agata ha capito che la sua massima aspirazione non è circondarsi di cani, gatti, galline, colombe e piccioni, bensì d’amore, puro e disinteressato, di cui gli animali sono solo una possibile declinazione. Le piace prendersi cura di qualcosa, o di qualcuno, che per vivere ha bisogno di lei, e l’ha intuito relativamente da poco, vagliando la catena di decisioni talvolta impulsive e altre volte più ponderate che l’hanno portata dov’è adesso, cioè in una casa di campagna con un marito, due figli e appunto numerosi animali domestici. Tutti loro, in modi diversi, dipendono dalle sue attenzioni, dalle cure quotidiane, dall’amore che è in grado di dare, e da quest’ultimo dipende la quantità di amore che riceverà. È una sorta di equazione dove le incognite non esistono. Agata sa di aver scelto Leone – perché di scelta si tratta, soprattutto dal matrimonio in avanti – per via di un’indubbia compatibilità sul campo. Era evidente fin dall’inizio. A lei piaceva disegnare immagini statiche, a lui piacevano le immagini in movimento. A lei piacevano gli animali da accudire, a lui gli animali che avrebbero potuto ucciderlo. Lei si vestiva a colori, lui abitualmente di nero. Lei preferiva litigare a voce, lui in silenzio. Diversissimi e pressoché uguali, sovrapponibili senza il rischio di eclissarsi. A monte non avrebbe mai creduto di sposare un uomo del genere, così egocentrico e umorale, eppure l’ha sposato. Perfino in gravidanza non credeva che sarebbe davvero diventata madre, malgrado la pancia, le caviglie gonfie e la nausea, eppure lo è diventata. Le è sempre piaciuto stupirsi, alzare l’asticella di ciò che reputava di non potere o non volere fare, per poi farlo e meravigliarsi di quanto fosse semplice e addirittura rimpiangere di non averlo fatto prima. Agata è questo tipo di persona. Lo sa lei – le ci sono voluti più di trent’anni per capirlo – e lo sanno i suoi figli, che ora la inseguono sulla porta di casa, implorandola di non uscire. Lo sa Leone, che la sta aspettando fuori, su una Volvo stretta e lunga degli anni novanta, col motore acceso per riscaldarla. E lo sa pure la baby-sitter, che la conosce meno di tutti, e in un attimo la libera dalla morsa di Orlando e Sofia e le augura una buona serata, dopo aver strategicamente distratto i bambini con la promessa di guardare Jumanji.

Agata impedisce a Pratica di fuggire in giardino e dice: “Andremo al cinema, e poi nel solito ristorante. Non faremo tardi, per mezzanotte dovremmo essere a casa”.

La baby-sitter risponde: “Ok, divertitevi”, sperando dal basso dei suoi diciotto anni che si divertano sul serio, nonostante il programma della serata.

Eppure, Leone, quando la moglie sale in macchina, portando con sé l’aria gelida dell’inverno, non guida verso il cinema, e nemmeno verso il solito ristorante. In anni di relazione non c’è mai stato, fra i verbali dei loro discorsi, un ristorante che abbiano definito “il solito” – quando si accorgono che lo sta diventando, di norma dopo un paio di volte massimo tre, decidono di non tornarci più, a prescindere dalla qualità del cibo. In generale preferiscono mangiare a casa, insieme ai figli, guardandoli inzuppare le patatine nell’acqua. E poi al ristorante, senza Orlando e Sofia, non sanno quali argomenti trattare, o come trattarli per non ripetersi, perché all’improvviso gli sembra di aver già parlato di tutto, e si sentono tristi e disuniti, ma in dovere di mostrarsi felici e più uniti del normale. La verità? Non ha a che fare con una percezione sfasata delle cene romantiche, e neppure con lo spregio delle liturgie di coppia. Si tratta di altro, ed è il segreto che custodiscono, forse, per continuare ad amarsi. Agata e Leone sono in perenne fuga da ciò che interpretano come zona di comfort. Anzi, è possibile che sia proprio quella la loro zona di comfort: scappare dalle abitudini, dall’inevitabile traiettoria che li porterebbe a compiacersi di un rapporto che non evolve anziché a piacersi. Se abbassassero le difese, e si lasciassero andare ai normali schematismi logici, come vantare diritti su una metà del letto, o ridursi a fare sempre l’amore nella posizione in cui sono sicuri di venire entrambi, eliminerebbero il rischio d’impresa nell’impresa più rischiosa di tutte, ovverosia il matrimonio. Per questo preferiscono dormire dove capita, alternandosi in base ai giorni e all’umore, in modo che nessuno dei due abbia un suo lato esclusivo. A volte c’è Leone a destra, a volte Agata, dipende, e il sesso funziona in maniera speculare, privo di consuetudini e leggi non scritte.

Non dovrebbe stupire, quindi, che marito e moglie entrino insieme in una palestra. Come il giovedì precedente, e forse per l’ultima volta, chissà. Si dividono per raggiungere i rispettivi spogliatoi, poi si ritrovano dove si erano lasciati. Saltano la corda per cinque minuti, con brevi pause ogni trenta secondi, evitando di guardarsi negli occhi. In silenzio si bendano le mani, indossano i guantoni a noleggio, il casco a noleggio, il paradenti che invece hanno portato da casa, insieme alla conchiglia per i genitali che hanno già sistemato. (Lei, negli spogliatoi, ha inserito una protezione supplementare per difendersi da eventuali colpi al seno.) Aggrediscono, privi di un metodo, dei sacchi idonei al loro peso corporeo, finché non si svuota il ring. Ci salgono sopra, dalla scaletta laterale, e Agata dà un bacio a Leone. Non è un gesto scenico, lo trova attraente con l’equipaggiamento. Gli chiede: “E se anche la mancanza di schemi fosse uno schema?”.

“Lo escludo”, risponde lui, “comunque questo è il nostro rischio d’impresa, vale la pena correrlo.”

“Magari è il più soffocante di tutti.”

“Colpiscimi, su, mi sentirei strano a cominciare.”

“Non so se ne ho voglia.”

“Anche di questo non so se ho voglia.”

Leone sferra un gancio destro ad Agata, mirando al casco. Lei non fa in tempo a pararsi e rincula, senza perdere l’equilibrio, quindi rialza la testa un po’ frastornata e si scaraventa subito sul marito. Lo colpisce ovunque, tranne che sul casco, mentre lui tenta di proteggersi coi guantoni facendo più volume possibile, e in parte ci riesce, però finisce in un angolo del ring e subisce altre scariche di pugni e aspetta, pazientemente, finché non intravede un varco e si libera. Ha l’occasione di attaccare, ma la perde. Viene di nuovo assalito da Agata, che ora ha il fiato corto e gli dice: “Se non fosse per la conchiglia, i testicoli ti sarebbero già rientrati”.

“Sono colpi proibiti dal regolamento. Lo sai, vero?”

“Mi hai colta di sorpresa.”

“No, e in ogni caso non c’è un regolamento. Siamo qui per farci del male e basta.”

“In questo momento siamo animali che lottano per la supremazia. Vedila così, se preferisci.”

Riprendono a picchiarsi. Non solo senza regole, ma senza tecnica. Usano le braccia e le gambe indistintamente con l’unico scopo di centrare il bersaglio. Le poche persone presenti in palestra li guardano, poi si guardano fra di loro e si domandano se intervenire. Marito e moglie vanno avanti, e capita che i lineamenti del viso gli si contorcano in una smorfia di dolore, oppure che si distendano in uno sguardo complice. A un certo punto non capiscono se il sangue sotto lo zigomo di Leone sia dovuto a un taglio che si era fatto con il rasoio, riapertosi per l’attrito con i guantoni di Agata, o se effettivamente sia stata lei a ferirlo. La cosa li diverte e, quando scade il tempo a loro disposizione, scendono dal ring e tornano verso gli spogliatoi con quel sentimento stampato in faccia. È un sorriso a tutto tondo, per nulla isterico. Dovrebbero lottare per la supremazia più spesso, se porta questi risultati.

Leone lo dice ad Agata, dopodiché aggiunge: “Ora scusami, vado a togliere la conchiglia dai testicoli”.

I bambini si sono addormentati da un pezzo, ben prima che loro fossero rientrati. Leone sta utilizzando il filo interdentale davanti allo specchio del bagno. Anche Agata è di fronte allo specchio, ma dietro Leone, riflessa mentre gli accarezza la ferita sotto lo zigomo.

“Non faceva male, prima che me lo chiedessi. Forse perché non ci stavo pensando.”

“Prendo i cerotti e il disinfettante, ci vorrà un attimo.”

Agata scende al piano di sotto. In soggiorno dà un’occhiata alle rane, come al solito serafiche nel terrario, poi recupera la scatola dei medicinali e si accerta che il flacone del disinfettante non sia vuoto. Ce n’è ancora, non moltissimo, però sono finiti i cerotti. Solo adesso si ricorda di aver utilizzato l’ultimo per rimediare a una caduta di Orlando, nel tentativo evidentemente prematuro di insegnargli ad andare in bicicletta. Passa accanto alla voliera e si accorge che manca uno dei piccioni. Sofia, designata a sistemarli per la notte quando lei non c’è, deve aver fatto male i conti, a dispetto dei suoi recenti progressi in matematica. Torna su con la stessa espressione felice che aveva in palestra, appena scesa dal ring. Guarda i suoi figli dormire (dormono con la porta aperta per lasciar filtrare la luce, e anche per essere rassicurati dal bisbiglio dei genitori ancora svegli) nello stesso modo in cui poco fa ha guardato le rane, aspettandosi un movimento che non arriva, pensando a un certo punto di poterli spostare con la forza del pensiero. Non ci riesce.

L’unico indizio che siano vivi è il rumore dei loro respiri sincronizzati, ma per Agata basta a inorgoglirla. Il semplice fatto di aver donato la vita a qualcuno non la sbalordisce poi molto, forse perché non riesce ad afferrarlo, è troppo generico, ai limiti del documentaristico. Ben più incredibile, invece, è aver dotato Orlando e Sofia di un apparato respiratorio funzionante, e che i vari componenti come il naso o i polmoni o i bronchi si siano formati dentro di lei, prima ancora di metterli al mondo, mentre assisteva una cliente al negozio di scarpe o si riposava ascoltando Bach in camera da letto. Non è la vita il vero miracolo, ma la costruzione progressiva di un corpo – nel suo caso due in contemporanea. E forse è ancora più assurdo che per compierlo non si sia dovuta impegnare. In gravidanza non ha mai detto: “Bene, oggi lavorerò sul sistema circolatorio dei miei figli, ma da domani mi concentrerò sullo scheletro, poi sui muscoli, poi sul cuore, poi sul fegato, poi sulla milza, e via dicendo, finché non saranno completi”. Non c’era una strategia consapevole. Il suo organismo agiva in silenzio, lasciandola all’oscuro dei progressi. Il cantiere andava avanti senza Agata, dentro Agata. Questo sì che la sbalordisce, nonostante siano passati degli anni.

In ginocchio sul materasso, coi dischetti di cotone che utilizza per struccarsi, tampona la ferita di Leone. Gli racconta cos’ha pensato guardando Orlando e Sofia dormire, e lui risponde: “Restiamo animali, anche quando non lottiamo per la supremazia”.

“Non ti sembra incredibile? Nemmeno un po’?”

“Sì, certo, e non so spiegarmelo, come non so spiegarmi il volo di un aereo. Ma per quanto lo sembri, ricordati che è nella nostra natura, e accade continuamente. In questo preciso istante stanno nascendo centinaia di bambini, altrettanti vengono concepiti, e nel cielo ci sono quasi diecimila aerei.”

“Gli aerei sfruttano i principi della fisica, è diverso.”

“Se non conosci questi principi, la scambierai per stregoneria. Ahia…”

Il giorno dopo, sradicando le erbacce dal giardino, Agata trova la carcassa di un piccione nascosta fra i cespugli. Si avvicina per guardarla meglio. Il sangue rappreso ha lo stesso colore della marmellata ai mirtilli e le interiora, brutalmente asportate dal corpo, somigliano a una piccola matassa da districare. Ora capisce perché i conti nella voliera non tornavano. Sa che la colpa è delle gatte siamesi, o almeno di una delle due, tuttavia non è arrabbiata con loro. Lo è più con se stessa, per aver pensato che una cosa del genere potesse non accadere. Ha sopravvalutato l’armonia del bizzarro ecosistema che ha creato, pur in buonafede, e un elemento ne ha pagato le conseguenze. Con i guanti sporchi di terra, solleva il cadavere e lo fa cadere dentro a un sacco della spazzatura vuoto. Lo richiude utilizzando il laccetto di plastica, poi si chiede che farne. Decide di seppellirlo fra il pino e l’eucalipto, dove il sole batte più spesso nelle corte giornate d’inverno. Decide anche di mentire ai suoi figli, aggirando così eventuali domande sulla vita oltre la morte, le cui risposte avrebbero comunque comportato una menzogna. Si limiterà a raccontargli che il piccione è volato via, verso chissà quale destinazione fantastica, magari in Argentina. Chissà come mai le è venuta in mente l’Argentina.

Più tardi, intercettandolo sulla porta di casa, appena entrato, Agata dice al marito: “Fermo lì, aspetta”.

“Le gatte hanno ucciso un piccione, ma ai bambini ho preferito raccontare che se n’è andato.”

“Le gatte? Tutte e due?”

“Stamattina ho trovato la carcassa fra i cespugli.”

“L’ho sepolto in giardino, vicino all’eucalipto.”

“Uhm”, risponde lei, colta da un baluginio improvviso, “sai che c’è? Il nostro film dovrebbe parlare di questo.”

“Degli animali morti, no? E di qualcuno che se ne occupa.”

Nei giorni seguenti sviluppano l’idea per il loro primo lungometraggio. Ne discutono a lungo, e molte cose cambieranno in corso d’opera, prima e perfino durante le riprese, ma la trama a grandi linee resterà quella di un giovane tassidermista che si innamora di una provocante femme fatale, che lo contatta per imbalsamare il suo piccione domestico.

Negli stessi giorni, più volte al giorno, Orlando e Sofia guardano l’Argentina sul mappamondo e si sentono tristi in un modo che non avevano mai sperimentato.

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