"Conversazioni poetiche": l’intervista collettiva che tratteggia le raccolte presenti nell’antologia - OUBLIETTE MAGAZINE

2022-10-08 19:26:05 By : Mr. hao wang

“In un mondo che ha fatto della materialità il cardine del progresso umano, scrivere oggi di poesia potrebbe sembrare anacronistico, come voler occuparsi del nulla. La nostra società, complessa e frenetica, non ha tempo per soffermarsi a meditare, a scrutare l’animo umano e le sue emozioni; la poesia invece è di questo che si nutre. È un atto creativo che richiede tempo e silenzio, perciò è opinione diffusa che potesse avere la sua valenza nell’infanzia del mondo, non adesso che viviamo sotto la tirannia delle ore e del rumore.” – dalla prefazione della poetessa Giuseppa Sicura

“Conversazioni poetiche” è un’antologia di dodici raccolte di poesia edita nel dicembre 2021 dalla casa editrice Tomarchio Editore. L’antologia consta di 260 pagine, si apre con la prefazione della poetessa Giuseppa Sicura e vede la partecipazione di Roberta Sgrò con “Di lamponi al risveglio, su note silenziose”, Giovanna Fracassi con “Il canto della memoria”, Gabriella Mantovani con “Preziosi momenti”, Roberto Chimenti con “Eco non muore”, Indiana con “Le ombre della vita”, Dennys Cambarau con “Inter Sidera Nos”, Caterina Muccitelli con “Frammenti”, Francesca Santucci con “La notte e il giorno”, Elena Papa con “Gioventù”, Antonietta Angela Bianco con “Emozionando la vita”, Teresa Viola con “Stelle a strisce”, Rosario Tomarchio con “La mia isola”.

Per riuscire a raccontare qualcosa di ogni raccolta si è pensata una intervista collettiva con tutti gli autori e tutte le autrici presenti in “Conversazioni poetiche”. Ad ognuno di loro è stata fatta una domanda che mostra un dettaglio della raccolta poetica presentata in antologia.

A.M.: La raccolta “Di lamponi al risveglio, su note silenziose” principia con un breve poemetto intitolato “La ragazza con il vetro rotto” di cui cito le prime due strofe: “In un passo/ fu così che si ruppe il nastro/ di una vita che si speziava di strade/ e non conosceva catene.// Nell’eco di una goccia che precipita,/ e che diviene frastuono per chi è sordo,/ andò in frantumi il mio specchio/ e di me ne rimasero che pezzi/ ritagliati da un bambino o forse dal vento,/ senza armonia, a compormi parzialmente.// […]”. Perché il poeta è l’essere frantumato che ne ha coscienza?

Roberta Sgrò: Credo che il poeta quanto ogni creatore d’opera d’arte sia un essere frantumato che ne ha coscienza. Mi piace molto come definizione. Credo che ognuno di noi sia incline a rompersi, proprio come quel nastro e quello specchio che cito nella mia prima raccolta di poesia che fan parte del nucleo “Di lamponi al risveglio, su note silenziose”: quel nastro e quello specchio altro non sono che la ragazza stessa. Certo, sono oggetti, ma che si sostituiscono a lei e la rappresentano: sono un suo accessorio, a caratterizzare l’immagine che gli altri hanno di lei, e ciò che proietta la sua immagine, quindi quella visione che lei avrà di sé. Come dicevo, ogni essere umano non fa che frammentarsi, lo fa costantemente: non sempre è un qualcosa di negativo, bisogna valutare a cosa può portare e soprattutto quale ne sia la causa. La ragazza di cui narro nella prima poesia è una guerriera, che assorbe dentro di sé il male che questa vita sa dare, ma questo non è detto la sconfigga. Si sgretola, perché indebolita, si rigenera, perché ancora viva. Ma, tornando al poeta – o scrittore, pittore, scultore, design, fumettista o architetto che sia – credo che per dar vita a qualcosa che sia poi condivisa e al di fuori del proprio sé, debba dividersi: l’emozione divenendo parola si sgancia dall’animo e si sparge, come frammento di sorriso, di richiesta, di opinione, e lo fa senza badare a dove caschi, senza ferire chi sfiora. Credo sia questo che accomuna gli scrittori e tutti gli artisti, dopotutto.

A livello di ragionamento generale, avrei moltissimo da dire: non è forse un «io» in frantumi quello che il postmodernismo propone? O forse, direi, mette in luce. Dal primo essere vivente all’ultimo, non ci sarà mai una sola definizione, né ne basteranno infinite, poiché l’uomo muta, cambia, si migliora, peggiora, soffre, subisce, fa subire, cerca di essere, continua ad esistere, fino a spegnersi, ma senza finire del tutto, perché di lui qualcosa, nella memoria altrui, dei suoi gesti e delle sue parole, rimane. Certo, nella società moderna, è una vera questione da affrontare, poiché abbiamo così tanti input che è difficile definirsi, o meglio, delinearsi. Si potrebbe forse essere chiunque si voglia, l’altro, se stessi o nessuno: ma decidere cosa davvero vorremmo essere contro quello che dobbiamo essere, tenendo conto della società? In realtà queste sono tematiche che affronto nei miei due romanzi pubblicati, “Pigmenti di vita” e “Tell me”. Ancora di più, proprio con l’immagine di un corpo che si sgretola, con il personaggio di Bleikur, lo stesso che si muove tra i miei scritti, e che effettivamente subisce questo processo: quanto corpo e quanto anima siamo? Quanto di noi rimane dopo la delusione o quanto ci costruiamo dopo l’amore ricevuto? Beh, ma qui sfociamo sulla filosofia, nella psicologia, andiamo sul vissuto, sulla vita quotidiana, e diviene complicato rispondere.

In realtà sono contenta di questa domanda, in moltissime mie poesie è presente questa necessità di essere distrutti, per comprendere davvero l’emozione, di contro la consapevolezza del dolore, che sa davvero sminuzzare anche il più ferreo degli animi. Questo non vuole dare una visione pessimistica della realtà, anzi, vuole dar consapevolezza che, per quante volte possiamo essere distrutti, sapremo ricomporci. O almeno io spero sempre in questo.

Colui che costruisce, come colui che distrugge d’altra parte, si sta proiettando su un altro, su un altrove: per me è già qui che ci si frammenta, poiché si creano possibili sé, alternative di un pensiero che filtra in altri, li condiziona e modifica. Ma ripeto, non voglio dilungarmi troppo. Ci sarebbe tanto da dire, ma ogni blocco aprirebbe poi quegli spunti sempre più ampli, per cui il discorso poi finirebbe per perdersi tra questi. Ecco, questo è ciò che l’uomo deve saper essere in grado di contrastare, sempre: non deve mai perdersi, disperdersi, modificarsi del tutto. Non trovo che frammentarsi sia decisivo, ma perdersi sì: chi siamo quando non siamo più, dopotutto? Io, nel mondo della scrittura, trovo molto questo: mentre scrivo sono i miei personaggi, quando li leggo loro sono mie creazioni quanto io una creazione loro, poiché avermi creati mi fa crescere, mi mette in dubbio, mi dà possibilità e, soprattutto, mi fa provare. È come divenire madre, infatti ho spesso detto in interviste che i miei personaggi sono come figli per me. Letteralmente. Detto ciò, credo, al di là che sia un’opportunità che una figura retorica troppo forte, la mia ragazza della poesia si è frammentata come ogni giorno, ogni corpo e ogni emozione sa fare: che il poeta ne sia cosciente o meno, non saprei dirlo, ma sostengo ci sia la consapevolezza che questo avvenga nell’atto della scrittura. Ma, dopotutto, è disfando il gomitolo di cui siamo composti che possiamo osservare ogni nostro filo o nodo… In conclusione, le parole non fanno altro che mostrare la luce e le imperfezioni di questi, di noi.

A.M.: La raccolta “Preziosi momenti” è dedicata alla stagione invernale, ogni lirica ne descrive le caratteristiche e ne esalta la bellezza. Per esempio ne “Rossiccia terra” leggiamo: “Rossiccia terra addormentata/ sotto la bianca neve./ Secchi arbusti/ come mani protese/ alberi dai contorti rami/ tra le ruvide pietre/ e la tortuosa strada/ accompagnano il mio viaggio./ Fantasia sottile muove/ incantati pensieri/ dipinge il paesaggio/ che si profila all’orizzonte”. Perché la lieve e bianca neve si accompagna così squisitamente all’ispirazione poetica?

Gabriella Mantovani: In questa raccolta” Preziosi Momenti” osservando aspetti della natura che la vita ogni giorno ci offre ho cercato di descrivere in versi regalando emozioni e sentimenti, alcune volte nostalgici come i ricordi per custodire piccole schegge di luce che si affacciano. Nell’osservare attentamente certe piccole sfumature dell’esistere, ho voluto interpretare lo scorrere del tempo in un immaginario viaggio ove riscoprire che ogni stagione ci offre i suoi doni a volte malinconici come la sottile nebbia, ove fondersi e osservare velati rimpianti.

Ho scelto con passione l’inverno caratterizzato dalla bianca neve che tutto avvolge creando un magico paesaggio di fiaba, ove nel silenzio si scorporano i pensieri. La lieve e bianca neve ci accompagna come una carezza in questo viaggio perché con la sua magia riesce a fermaci e a guardarci dentro, ci consente di riscrivere tutta la nostra esistenza con il candore della neve che ci accompagna e come un grande foglio bianco si propone ad osservare pensieri, emozioni da un nuovo punto di vista.

Nella poesia “Rossiccia terra” osservo la terra come riferimento alle nostre radici, a volte addormentate, i rami dei secchi arbusti simboleggiano le mani protese verso l’infinito, le ruvide pietre interpretate come le difficoltà della tortuosa strada che accompagna il viaggio dentro l’introspezione dei pensieri muove una sottile fantasia che, guardando all’orizzonte, solleva pensieri risvegliati e, nell’incanto con la dolcezza del bianco manto della neve, avvolge come una promessa in un abbraccio. Nella raccolta sono presenti altri riferimenti a preziosi momenti da vivere, altre stagioni ove il vento che soffia  allontana ombre e ridisegna ogni contorno, lo sciogliersi della neve interpreta come una nuova promessa il nostro risveglio, l’amica Luna ci accompagna nella notte con stupore regalandoci pace e serenità per accogliere la nuova alba e, nel tepore della nuova vita germogliata dentro di noi, lasciarsi cullare dalla ricchezza dei sogni per realizzare momenti felici e con il sorriso impadronirsi del momento presente.

A.M.: “Eco non muore” un titolo evocativo per una raccolta che vaga nel mito alla ricerca della quiete. Nella lirica “Ricerca” si legge: “Chi può riuscire a rappresentare/ usando il racconto/ la storia di un popolo// Quando è possibile arrivare a manifestare/ il senso di una storia umana// Poche parole scelte/ tra la moltitudine delle disponibili/ si dispongono in fila/ a formare una composizione/ che mette i cardini al tempo// […]”. Qual è la figura che riesce a rappresentare la storia di un popolo? Lo storico, lo scienziato od il poeta?

Roberto Chimenti: Non credo possa esserci una figura precisa che possa rappresentare la storia di un popolo usando la parola, il racconto.

Per questo vengono citate più figure lasciando in sospeso la possibile risposta.

Certamente nel momento in cui si allude alla ricerca del senso profondo necessario ad esprimerlo è necessaria una sensibilità e una capacità di espressione che sono vicine allo scrittore e sicuramente al poeta. Possibilità che appartiene a chi vi riesca senza distinzione di età, sesso o nascita.

A.M.: Nella raccolta “Il canto della memoria” la lirica “Malinconia” recita: “Quando la malinconia è una scintilla/ che danza sul ceppo/ dove la fiamma lambisce il cuore/ quando la malinconia è lo scricchiolio di un sospiro/ mentre un ciocco acceso/ diviene una grotta aperta verso il firmamento/ dove dardeggiano lingue di fuoco/ quando la malinconia accarezza con dita soffici di cenere/ l’anima stanca/ intorpidita/ rapita/ stranita/ prigioniera tra le sbarre nere/ di questa notte/ […]”. Compagna devota della malinconia è la solitudine e solamente in questo stato si può avvertire il torpore del rapimento. Perché durante la notte e sotto l’influsso della Luna si scrivono le liriche più intense?

Giovanna Fracassi: La notte è quello spazio-tempo in cui il poeta s’immerge nella propria interiorità, in quell’allontanamento dalla vita del giorno e dalle presenze umane che lo popolano. Innumerevoli sono i componimenti dei grandi poeti che hanno come riferimento proprio questi elementi. Ne voglio citare solo alcuni: Goethe con il suo “Canto notturno del viandante”, Foscolo con “La sera “, Quasimodo con “La terra” e ancora D’Annunzio, Leopardi, Pascoli (“Il gelsomino notturno”), Shakespeare e tanti altri; l’elenco sarebbe davvero molto lungo. È infatti durante la notte che il silenzio consente l’ascolto dei propri pensieri, delle proprie emozioni, dei propri sentimenti e nello stesso tempo ci permette di stare in ascolto di ogni più piccolo scricchiolio del mondo intorno a noi. In questo modo è possibile metterci in contatto profondo e riflessivo, non solo con il nostro Io, ma anche con le presenze della nostra vita quotidiana, con quelle che popolano i nostri ricordi del passato e con le attese, le speranze che brillano come stelle per indicarci il cammino nel nostro futuro: il giorno che s’avvicina e che si preannuncia ai primi bagliori rosei dell’alba. Pare quasi che di notte la nostra anima giochi a nascondino invitandoci a cercarla bene tra le ombre, le zone più oscure, là dove è più facile trovare anche le nostre più profonde paure, il nostro smarrimento di fronte ai grandi misteri della vita e della morte, del tempo, del bene e del male. Tutti quegli interrogativi che di giorno giacciono inerti, sopiti in mezzo al fragore, al succedersi dei tanti impegni, lavori, ruoli che assorbono la nostra attenzione, il nostro tempo, le nostre energie e che pertanto prosciugano la nostra sensibilità. La notte invece la risveglia, la irrora di chiarori vivificanti, con la brillantezza delle stelle nel cielo più sereno, con l’aureola di luce che sparge la luna su ogni dove. Potrebbe mai l’animo errante del poeta sfuggire al richiamo, quasi ancestrale, che ha su di lui la notte?

Anche la notte più buia, tempestosa, flagellata dal vento, oltraggiata dal mugghiare rabbioso del mare o quella resa evanescente dalla nebbia che isola e attutisce il rumore del mondo, o quella rischiarata dal biancore etereo della neve con il volteggiare di bianchi coriandoli che subito ci riporta all’allegria e alla spensieratezza della nostra infanzia, tutti questi “volti” della notte consentono al poeta di elevarsi in una sorta di estasi riflessiva ed emotiva e lo spingono con urgenza a scrivere i suoi versi. Versi che sono spesso intrisi di malinconia, di nostalgia, di smarrimento e, non di rado, sono espressione di un sentimento d’isolamento, di estraneità ad un mondo, ad un consorzio umano in cui non ci si ritrova. E qui entra un altro elemento, a parer mio, molto importante, ossia la solitudine del poeta-uomo. La solitudine che si percepisce in quanto ogni Io è unico e irripetibile e quindi secondo me, ontologicamente “solo”. L’unicità, la singolarità, sono per me indissolubilmente legati al senso di solitudine come estraneità al mondo di cui pure si fa parte ma dal quale ci si sente comunque “lontani” in quell’incomunicabilità a cui siamo condannati perché siamo delle “monadi” gettate in questa vita. La solitudine che il poeta percepisce così fortemente di notte, di fronte allo spettacolo della Luna e delle stelle, lo riporta alla propria unicità, al proprio Io, spesso con un senso di inquietudine, di turbamento ma anche di estasi creativa. Quell’estasi creativa che lo conduce, quasi paradossalmente, a “comunicare” e quindi a superare quel sentimento di estraneità e di incomunicabilità, di solitudine esistenziale appunto, proprio tramite le sue parole, i suoi versi che vibrano come dardi lanciati verso l’anima, la sensibilità, la ragione di quei suoi simili che li vorranno accogliere come semi da far germogliare nel loro stesso Essere. Tutto ciò perché la notte è il momento in cui l’uomo-il poeta si trova solo di fronte all’Infinito e percepisce con dolore ma anche con meraviglia, reverenza la propria piccolezza, inadeguatezza di fronte a tanto spazio, tanto mistero che lo porta a riflettere sul significato della morte, su quel viaggio che tutti ci attende e che ci riempie di dubbi, domande, emozioni, come pure di curiosità, di attesa.

La notte si pone al giorno come la morte alla vita, la vecchiaia alla giovinezza, l’inverno alla primavera: momenti, periodi, stagioni in cui siamo esposti, travolti dall’imponderabile, dall’imprevedibile, resi magari più fragili ma contemporaneamente vivificati dal sentimento della nostra unicità che chi scrive coglie, sente pulsare nel suo essere e trasmette, così interiorizzato e rielaborato, a chi legge. Ed ecco il grande messaggio, il grande fascino della poesia che si scrive di notte e che ritroviamo nelle liriche di tutti i grandi poeti del passato come in quelli odierni: l’unicità di quell’IO che, solo, si confronta, si misura con il mistero dove lo spazio-tempo pare annullarsi, dove nessuna spiegazione scientifica sull’Universo, sull’Uomo è in grado di porre un punto fermo poiché ad ogni quesito risolto se ne presentano altri ancora da indagare, in quello che sembra essere, ed è, una ricerca infinita. In questa ricerca è racchiusa la meravigliosa avventura dell’esistenza, sia del singolo uomo sia dell’Umanità intera. Ed il poeta, pur se spesso anche uomo di scienza, vibra nella notte, di fronte a quella Luna, a quelle stelle, a quell’oscurità, a quell’Universo che non ha confini, così come non ha confini l’animo umano.

A.M.: Ha voluto dedicare la sua raccolta “Le ombre della vita” a tutti i romantici che si proiettano in un mondo interiore, così nella lirica “Come un battito di ciglia” leggiamo: “Il confronto con la realtà/ inevitabile come un respiro/ come un battito di ciglia/ come un’ombra ferita/ come un bacio mai dato/ Il resto?/ Silenzia l’infinito finito”. Che cos’è l’infinito finito?

Indiana: Noi poeti o poetesse siamo considerati lontani dalla realtà, ma non è proprio così: infatti siamo costretti ad interpretarla a modo nostro.

Il pensiero di definire l’infinito è che: dall’infinito nasce il finito, oltre non ci sono parole o pensieri. Tutto è completato senza ritorno.

Il confronto con la realtà viene descritta dai fatti, i fatti sono uguali per tutti perché sono condivisi.

A.M.: “Inter sidera nos” è un titolo che celebra la predisposizione dell’essere umano del sentirsi parte del tutto, di ciò che abbiamo denominato universo. La lirica “A mia madre” principia con: “Madre, tremano le mani e la voce pure/ In questo istante che non mi dà più pace/ Mentre ti rivedo rivolta verso me e la luna./ Una nota triste m’accompagna/ Or che ascolto Maria Callas cantar con grazia/ In una registrazione del passato…/ L’emozione spesso rompe il fiato, lo spezza/ E il cuore galoppa per la troppa propensione/ A rievocar dolci ricordi tenuti in gran segreto./ […]” Perché la donna – la madre – riesce a colmare quella sensazione di vuoto che talvolta avviene tra noi ed il Tutto?

Dennys Cambarau: Siamo esseri complessi, noi umani: ricerchiamo sempre la vicinanza di qualcuno in qualsivoglia momento, perché prima di tutto siamo esseri sociali, abituati, per la maggior parte dei casi, a cooperare e a stare in compagnia. La sensazione di vuoto che spesso ci accompagna, è data dalla consapevolezza del mondo e delle sue leggi, opprimenti per chi cerca l’affetto e l’amore.

La madre è sempre la figura di riferimento per tutti, capace di essere presente nei momenti più difficili o in qualche modo complessi; capace anche di supportare i propri figli che più hanno bisogno… Non a tutti è stata data questa fortuna, ma per i più è così. Io parto dunque da questa consapevolezza: l’aver avuto una madre devota alla sua prole, capace dell’estremo sacrificio e consapevole del fatto che tutto si riduce nella necessità per la vita di andare avanti.

Forse anche per la madre questo è un comportamento egoistico, perché sotteso c’è sempre il bisogno di perpetrare sé stessa attraverso i figli che altro non sono che la proiezione di sé stessa nel futuro. Mi piace comunque sempre pensare all’affetto e all’amore come forza risolutrice nel diadico contrasto all’egoismo e al male che tutt’ora dominano incontrastati, forse, come forze risolutrici a ogni contrasto nel proscenio della vita.

Siamo, nel tessuto delle relazioni umane, Tutto e Uno, Uno e Tutto: ogni cosa è in relazione col resto del Creato, sia in senso ampio che secondo le leggi della Meccanica Quantistica… Sono sempre stato innamorato, oltre che della poesia, anche della Fisica e dell’Astrofisica, ed è forse per questo che, avendo letto molto in merito, la penso così.

Credo comunque che appassionarsi di qualcosa nella vita non possa portare altro che bene, un poco come Maria Callas che amava la danza. Innamorarsi sempre, quindi, perché questa vita che ci è stata data è in fondo la presa di consapevolezza che l’Universo ha di sé stesso: il Tutto, appunto, che si riduce all’Uno.

A.M.: Quando guardiamo indietro negli anni riusciamo, con il ricordo, a sentire fragranze precise che durante l’infanzia hanno segnato fortemente dei particolari momenti. Nella lirica “Ciò che è stato e ciò che è” leggiamo: “C’è stato un tempo in cui fiorivano i fiori d’arancio/ l’aere profumava di dolce essenza/ la mente si inebriava al passaggio/ nei vicoli vivi dello schiamazzo fanciullesco/ il basolato antico lucido di passi secolari/ lo sguardo ammagliava dalle forme irregolari/ la fontanella sotto il campanile zampillava felice/ in attesa di acquietare l’arsura del passante.” È attitudine soltanto del giovane essere trascinato dagli odori del mondo oppure anche da adulti è possibile?

Caterina Muccitelli: Il giovane viene sicuramente trascinato dagli odori del mondo ma la sfrenatezza del vivere quotidiano e la smania di provare tutto e subito, caratteristiche proprie dell’età, a volte possono non far approfondire il significato di alcuni attimi perché la smania di vita prende il sopravvento. Ovviamente questo è una considerazione generale a cui si applicano le specifiche del caso!!!

Nell’adulto, invece, l’attitudine ad essere trascinato sul sentiero dei ricordi è molto più accentuato, complici la miriade di anni trascorsa, la maturità sopraggiunta, le fregature prese durante il percorso di vita.

A volte basta un profumo, a volte uno scorcio, a volte una canzone, a volte una parola… ed ecco che il déjà vu prende la mente e si viene catapultati in un’altra dimensione dove non esiste il passato ma solo l’attimo presente che si fonde con esso e succede la magia: la serenità dell’infanzia tra i vicoli prende il sopravvento e placa ogni dubbio dell’oggi.

Perché è innegabile che oggi siamo ciò che siamo grazie a ciò che siamo stati e… mentre sento l’odore dei fiori d’arancio, non ho neanche il bisogno di chiudere gli occhi che mi ritrovo a giocare a nascondino, a pantaloncini corti e ginocchia sbucciate, nel vicolo di via Carlo Poerio correndo con la libertà della mente e dello spirito mentre sullo sfondo la fontana sotto il campanile scorre allegramente.

A.M.: “Lei cantava canzoni per placare il dolore,/ diceva che era nata obbligata dal Signore,/ Perché mi ha voluto in Terra, se non posso vedere?/ non lo chiedeva mai,/ ma lo voleva sapere…/ Lui camminava male dopo un brutto incidente,/ l’ingiustizia l’ha sfidato e ne è uscito perdente,/ Perché mi trovavo lì proprio in quel momento?” “Lui e lei” racconta di una donna nata senza la capacità di vedere e di un uomo che ad un certo punto della sua vita ed a causa di un incidente ha perso la capacità di correre. I due personaggi descritti sono in contrapposizione con un Io fisicamente sano ma che presenta forme di angoscia divoranti. Perché porta sollievo riflettere sulla diversità (ed unicità) di vita e sulla forza dimostrata dagli altri?

Elena Papa: È importante perché a volte, guardare la forza e l’entusiasmo di vivere di chi sta peggio di noi, può aiutarci a capire quanto in realtà sia bella la vita e quanto a volte noi, avendo tutto, ci lamentiamo inutilmente e non riusciamo a godercela pienamente.

Bisogna sempre ringraziare e soffermarci su ciò che abbiamo, invece di pensare a quello che ci manca, solo così potremmo raggiungere la felicità.

A.M.: Il lettore di Omero non conobbe mai le parole del canto delle Sirene perché sentirlo rendeva folli e tragicamente suicidi. “Avviluppato, Ulisse, al tronco/ della nave saldo, ai richiami sordo,/ contro il plumbeo cielo il vólto vòlto,/ gli occhi neri di brace serrati ostinati,/ la voce e il canto e le preghiere/ finalmente udì, echi distinti/ tra fragori roboanti/ d’onde torbide e fangose.” Questo l’incipit della lirica “Il perduto amore” nella quale però una sirena inizia a cantare.

Francesca Santucci: Nel racconto di Omero Ulisse (Odisséo) è messo in guardia dalle Sirene (le terribili creature marine ammaliatrici, dal soave canto inferiore soltanto a quello del dio Orfeo) dalla dea–maga Circe, figlia del Sole, presso la quale si è fermato un anno. Guai, infatti, all’uomo che si fermi ad ascoltare il loro canto! Non tornerà mai più ai suoi affetti, alla sua casa, ma, attratto dalle loro melodie, troverà una morte atroce contro gli scogli aguzzi, come testimoniano i resti, disseminati sulla loro isola, dei cadaveri putrescenti di tutti gli uomini che lo avranno preceduto.

“Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti/ gli uomini incantano, chi arriva da loro./ A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce/ delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini/ gli sono vicini, felici che a casa è tornato,/ ma le Sirene lo incantano con limpido canto,/ adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa/ di uomini putridi, con la pelle che raggrinza. (Omero, Odissea XII, 39-46)

Circe, però, consiglia anche il modo per sfuggire alla loro brama mortale. Per evitare di udire quelle voci affascinanti e insidiose, Ulisse dovrà turare le orecchie dei suoi compagni con cera molle e farsi legare strettamente all’albero maestro della sua nave con delle corde, raccomandando ai suoi di stringerle ancor di più se dovessero vederlo in agitazione per slegarsi. Si fa giorno. La dea-maga dona a Ulisse un vento favorevole, gonfia le vele della nave, la prua fende dritta le onde. Ulisse, leale con i suoi compagni, li informa del pericolo rivelatogli da Circe. Proprio quando termina di parlare la nave giunge in prossimità dell’isola, dove vivono le mortali ammaliatrici.

Di colpo si placa la brezza, il mare ora è in bonaccia, calmo e senza vento. L’aria s’incupisce, la luce diviene livida, più non volano gli uccelli marini, intorno è silenzio. Come raccomandato dalla dea-maga, Ulisse, per non cedere alle lusinghe delle voci incantatrici, che spingerebbero tutti a morte, da un disco di cera ricava dei tappi con i quali copre le orecchie dei suoi compagni, poi si fa legare strettamente all’albero maestro. Improvvisa si leva un’armonia di canti struggenti, superiore in dolcezza e bellezza a qualsiasi altra: è il canto delle Sirene.

“Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,/ e ferma la nave, perché di noi tu possa udire la voce./ Nessuno è mai passato di qui con la nera nave/ senza ascoltare dalla nostra bocca il suono di miele,/ ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose.” (Omero, Odissea XII, 184-8 p. 363)

Mentre diffondono le loro melodie ammaliatrici, le Sirene cercano in ogni modo di attirare a riva l’equipaggio. Ulisse è sconvolto, la sua insaziabile curiosità, l’innata sete di conoscenza che sempre ha guidato la sua esistenza, gli urla dentro. Irresistibilmente attratto, smania, strattona le corde, come invasato, in preda a un’assurda follia, grida ai suoi compagni di liberarlo, ma due dei suoi uomini lasciano i remi e, seguendo gli ordini impartiti, subito accorrono per legarlo ancora più strettamente. Infine, tutti remando freneticamente, riescono ad allontanare la nave dagli insidiosi scogli, mentre le pericolose voci si affievoliscono in lontananza. Solo quando l’isola delle Sirene non è più in vista i marinai si liberano dalla cera e slegano Ulisse. Oltrepassata l’isola, scampato il pericolo, la navigazione riprende verso nuove mete. Le bellissime e seducenti creature degli abissi, che, alate (come rappresentate nella tradizione greca e romana) o caudate, tanto hanno suggestionato nei secoli artisti e letterati, hanno esercitato la loro fascinazione anche su di me, che sono nata a Napoli, città che alla Sirena deve il suo antico nome, Parthenope, e quello dei suoi abitanti, partenopei.

Da bambina ero convinta che realmente le Sirene popolassero il mare della mia città e, ogni volta che andavo sul lungomare e mi fermavo sugli scogli a fissare la verde-azzurra distesa, quasi mi pareva di scorgerle sotto le acque luccicanti, con i sinuosi corpi e i lunghi capelli, e pure mi pareva di udire i loro straordinari canti modulati come dolci sussurri. Già allora, però, nel mio immaginario tutte le sovrastava Parthenope, commuovendomi il rifiuto del suo amore da parte di Ulisse, come narrato nella leggenda che ben conoscevo e che mi ha ispirato il componimento “Il perduto amore”. In rovesciamento del mito di Ulisse, che in Omero è colui che vince con l’astuzia le tremende Sirene, mi è piaciuto immaginare non l’eroe vittorioso per aver evitato l’insidia della pericolosa fascinatrice, ma l’uomo che rimpiangerà in eterno la profferta d’amore; non Parthenope, creatura del mito che trascina a morte con l’inganno, ma, in incarnazione dell’amore romantico, innamorata infelice. Le accorate sue parole per Ulisse non erano canto di morte ma invito all’amore. Follia pensare che lui si fermasse ad ascoltarle! Se le avesse ascoltate sarebbe impazzito per lei e non avrebbe proseguito il suo cammino. Ma non l’isola della sirena, altra era la sua meta. A Parthenope non resta che sprofondare tra le acque, lasciando Ulisse al rimpianto per il perduto amore.

A.M.: “Aureola rosata, dorata sopra il violaceo mare,/ accende nel mio viso un inquietante andare./ Voglio viaggiare, navigare senza vapore e senza vele/ per distrarmi dalla noia,/ come ape che sciama, dolce miele.” Ne “Viaggiare: occhi, mente e cuore” si affronta la tematica del viaggio come distrazione dalla noia. Perché chi ha il dono della scrittura viene assalito dal demone della noia?

Antonietta Angela Bianco: Il mio viaggiare vuole essere un viaggio attraverso l’anima, i pensieri, la fantasia. Il fatto di poter “viaggiare” aiuta molto chiunque. Nel tuo viaggio puoi recarti dove vuoi. Puoi prendere il volo e ritrovarti dall’altra parte del mondo. Puoi vedere tutti i colori del paese in cui stai viaggiando, ti distrai a parlare con le persone, a vedere la loro bellezza.

Viaggiare è anche pensare di prendere il volo, come un airone, voli sopra la città, attraversi le nuvole, osservi come va il mondo e rifletti sui mali del mondo e su come vorresti questo mondo. Viaggiare è anche desiderio d’amore, viaggi insieme al tuo amore e trovi quella pace che ti fa stare bene.

Il viaggio è sogno, si “viaggia” gratis e puoi recarti dove vuoi persino nel cielo e giocare con le nuvole, nasconderti agli altri e giocare con la fantasia. Quando viaggi non hai il tempo di annoiarti. Durante il viaggio può capitare di voler scrivere le tue emozioni, il tuo viaggio, così può nascere una poesia.

A.M.: Il fascino dei castelli e delle leggende legate intorno a quelle fortezze sarà sempre fonte di ispirazione. Troviamo infatti ne “Castello” i versi: “È saraceno/ Situato in un luogo ameno./ Chi ama la storia e le sue vestigia/ Di visitarlo non ne può fare a meno./ Quanto mi piacerebbe poterlo rivedere/ Ai bei tempi con i suoi occupanti,/ Con i suoi fasti, con i cavalieri che/ Per difenderlo sanguinosamente/ Lottavano.” È la pietra, che dura nel tempo, ad attirarci verso questi luoghi?

Teresa Viola: Credo che nell’immaginario collettivo, compresa nella mia immaginazione, il fascino dei castelli si associ alla storia delle tante lotte per la conquista di territori ed ai nobili che non volevano che la fortezza cadesse in mano ai nemici.

Inoltre c’è da considerare la bellezza suggestiva del maniero, il modo in cui era costruita la torre, i sotterranei, le tantissime umide stanze, tutto questo ci riporta ad un passato feudale di re, regine, principi e principesse.

Anche se adesso questi personaggi esistono, cioè ci sono ancora nella carta, non hanno più la regalità storica di un tempo né sono investiti della stessa importanza, dunque è nella nostra immaginazione che ancora prendono vita per tramandarci il loro glorioso passato.

A.M.: “Ancora un tremore/ Ancora una notte passata a guardar le stelle/ e come tu ti agiti nella notte./ La notte si colora con il tuo fuoco/ e noi con paura stiamo qui ai tuoi piedi/ sognanti a riempire/ i fogli di rime/ che si uniscono l’un l’altra/ e ti cantano la ninna nanna.” “Vulcano malato” racconta delle notti trascorse a guardare le stelle con l’antico timore che la Signora – l’Etna – decida di prendere qualche anima con sé. Nel verso successivo leggiamo: “Noi mortali siamo malati di te”; malati ed innamorati della montagna che produce fuoco e devastazione, ma che è anche linfa vitale e propizia per la terra.

Rosario Tomarchio: Con lo sguardo romantico e nostalgico mi riporti indietro al tempo in cui l’Etna come una madre si prendeva cura dei suoi figli tremanti e paurosi e dava loro pane e un buon bicchiere di vino che si offre con allegria e gentilezza. Ancor oggi la Signora del Fuoco ritorna ad esser madre da vicino e da lontano, lei ci chiama con gli occhi pieni di stupore e noi poeti non possiamo che guardare la sua infinita bellezza.

“[…] ci ubriachiamo della tua bellezza,/ nel vino che ci doni cerchiamo conforto/ e al minimo movimento/ torniamo con il naso all’insù/ per farti compagnia ancora una notte/ mio vulcano malato.”

Forse noi mortali siamo malati perché anche con le gambe tremanti non smettiamo di alzare gli occhi verso l’Etna. E quando per amore, per lavoro o per ricominciare una nuova vita decidiamo di fuggire dalla Sicilia e dalla grande montagna, il cuore e la mente sono pregni di tristezza al ricordo della passione del tremito. Il poeta è legato al fuoco, anche la singola scintilla diventa un poema nella sua mente.

“In questi involucri concreti, che sono le immagini, i poeti e tutti gli artisti ci lasciano testimonianza delle età che hanno attraversato; pertanto con loro il mondo è come rinascesse continuamente sotto forma di poesia e, nonostante spesso si diffonda un vociare che la dà per morta, lo constatiamo ogni giorno che l’attempata signora, come in tanti vorrebbero dipingerla, è invece più viva e giovane che mai e si fa leggere e sentire.” – dalla prefazione di Giuseppa Sicura

Cara Alessia, complimenti per questa super intervista collettiva che fa emergere alcuni punti fondamentali come i frammenti, la terra, il silenzio, l’Etna e la sua forza rigenerante, la natura che che ci circonda e che fano parte di un filo conduttore che unisce i poeti e gli amanti della poesia. Nello stesso momento chi legge questa meravigliosa intervista, trova il piacere di rispecchiarsi e confrontarsi con le varie forme ed espressioni che la ninfa della poesia dà alla luce con i vari poeti.

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