Reminiscenze di vite passate; il giullare ed il blasfemo - Il Bene Comune

2022-10-08 19:16:14 By : Mr. Wan Qi

Ricordo che, in una delle mie numerose vite passate, quand’ero un apprezzato giullare alla corte del Re Cucco, riuscivo a farlo piangere dalle risate con battute e storielle buffe che avrebbero annoiato il più diplomatico degli umoristi. La sua ignoranza e la sua goffaggine erano paragonabili soltanto al suo immenso potere. Pensate che la Regina, mediocre ex cortigiana irlandese, ebbe in regalo dal consorte per il suo quarantesimo compleanno, un gigantesco cesto di vimini riempito sino all’orlo di gioielli e pietre preziose; per circa tre anni la sventurata indossò ogni santo giorno settantacinque libbre di catenine, anelli, bracciali e corone.

Sfinita e resa informe dal sovrappeso, perì una mattina di novembre cadendo dalla torre del castello, dopo che un merlo malandato cedette al dolce peso regale adagiato lì per caso. Il Re Cucco per consolare il suo cuore a pezzi, mi ordinò di scrivere un libro comico che contenesse le migliori barzellette, le più belle freddure che si potessero immaginare.

Qualcosa del genere l’avevo già pronta nel cassone, gli feci leggere il mio libro di fiabe goliardiche intitolato “Pecenera e i sette Watussi”. Una sorta di abbecedario dell’umorismo che raccontava le vicissitudini paradossali di una nana ariana e di certi suoi amici minatori della tribù dei Watussi. Fu un successone, tant’è che il sovrano morì soffocato, ingoiando la sua lingua, mentre rideva indicibilmente di quelle pagine. Gli uomini ignoranti pensai, sono le creature più scontate ed allo stesso tempo pericolose che abitano il pianeta. Bisogna saperci fare, assecondarli quando è necessario, evitarli ed osteggiarli alla prima occasione.

Mi ci vollero quarantacinque lunghi anni, per arrivare a capire una volta per tutte che, la demenza e la pochezza palesate dai conformisti d’ogni epoca, non erano affatto delle semplici devianze o labili impronte epocali, ma bensì un radicato cancro che logorava generazioni dopo generazioni interi cervelli, dall’ipofisi alla corteccia. Sapevo che combattere l’idiozia era una causa vincente, ma battagliare contro di essa, voleva significare distruggere l’uomo stesso.

Inutili furono gli slanci e i tentativi di comunicare con parole universali, fallimenti furono anche i propositi di comprensione e di comunione. Arrivai quasi a convincermi di essere nel giusto, d’essere saggio, ma per fortuna riconobbi il fantasma d’un mio avo, proprio mentre nutrivo astio e disconoscevo le mie eclettiche radici.

A quarantacinque anni compiuti, nato e cresciuto nella blasfemia più radicale, gettai un grosso macigno sul capo del Cardinale, non ricordo bene se centrai il bersaglio, ma gli ultimi istanti di vita mi rimasero ben impressi nella memoria. Ricordo perfettamente che una punta di lancia mi trafisse d’un colpo il petto, ricordo il volto del mio carnefice, un certo Bastiano Occhiofesso, un ragazzotto robusto e assai tonto, osservai in particolare il suo sguardo disorientante. L’occhio sinistro pareva che guardasse il cielo, quello destro perlustrava l’incavatura nasale, era la faccia più ridicola e stupida ch’io avessi mai veduto.

Il gazzettino l’indomani riportò in prima pagina l’accaduto, il titolista in vena di sensazionalismi, così presentò l’articolo: “Muore sogghignando il folle attentatore del beneamato Cardinale” .

Più che un ghigno fu un autentico delirio, un irrefrenabile attacco di riso che mi assalì alla vista di Bastiano Occhiofesso, quasi non riuscivo a credere che stavo morendo per mano d’un siffatto demente e non riuscivo malgrado l’immenso dolore a contenere gli effetti della sorpresa.

“Che schifo…!” Pensai solo più tardi, dopo il decesso, “E’ mai possibile ch’io debba finire la mia ruggente e prolifica esistenza ucciso da un deficiente per di più strabico?” .

Sicuramente più dignitosa e commiserevole fu la morte del Cardinale, “assassinato da un folle, colpito a morte da uno squilibrato, dal noto predicatore uscito fuori di senno da un giorno all’altro…”. “Bisogna saper morire, morire bene è indice di grandezza !”.

Fu una lezione che non dimenticai, giurai a me stesso che per il prossimo tentativo omicida avrei adoperato soltanto bucce di banana, al massimo massicce dosi di lassativi; ma l’ironica compostezza della follia riconciliò ancora una volta la mia esuberanza, nell’oblio e nell’attesa d’una ennesima risurrezione, sorrisi consapevole d’aver ridicolizzato la sinistra e quantomai seriosa figura della morte.

La morte degli innocenti è la morte peggiore. Quella dei bambini è in assoluto la più struggente, la morte dei vecchi e dei malati è quella che induce alla misericordia, ultima pugnalata medioevale alle anime moriture. La morte dei folli infine è la meno ” mortale “. Mai fallire la morte! “Un amico val meglio di cento preti” sussurrai all’orecchio d’un mio fraterno compare, quando egli era lì per esalare l’ultimo respiro.

Lui con un filo di voce mi rispose: “Allora cosa me ne faccio dell’estrema unzione?“. Mi strinse la mano e sorrise, poi spirò! L’epitaffio sulla pietra tombale lo definì come un uomo probo e degno d’ogni rispetto, un abilissimo vetraio che non fece mai torto a nessuno, ma non fu uomo di chiesa, bensì laico amico degli atei. Fu una morte coerente la sua, come tutta la sua esistenza.

Creativo, autore, regista cinematografico e teatrale. Libertario responsabile e attivista del pensiero critico. Ha all'attivo un lungometraggio, numerosi cortometraggi premiati in festival Internazionali, diversi documentari inerenti problematiche storiche, sociali e di promozione culturale. Da sempre appassionato di filosofia, cinema e letteratura. Attualmente impegnato come regista nella società cinematografica e teatrale INCAS produzioni di Campobasso.

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