di minima&moralia pubblicato mercoledì, 12 Ottobre 2022 · 2 Commenti
Once there was an explosion, a bang which gave birth to time and space. Once there was an explosion, a bang which set a planet spinning in that space. Once there was an explosion, a bang which gave rise to life as we know it. And then came the next explosion. An explosion that will be our last. Hideo Kojima
«Dunque», dice Bill.[1] «Quando sono arrivati gli Etruschi cos’è successo alle popolazioni autoctone dell’Umbria del tempo? E quante erano queste popolazioni?» Sono le prime parole che mi rivolge, appena dopo avermi stretto la mano.
Andiamo a pranzo, non c’è l’opzione vegetariana: mi preparo al digiuno. Bill, che dopo qualche ora comincerà a ridere alle mie battute e darmi pacche sulle spalle, vuole sapere perché non mangio carne. Qual è il mio piatto preferito? E quale bevanda alcolica preferisco? Quale pizza? Ero mai stato a Pomigliano? Sono mai stato a Venezia?
È il suo modo di rompere il ghiaccio, e presto inizia a fare lo stesso con tutti gli altri. Gente che vuole parlargli, che lo intervista, che vuole una firma o una fotografia. È incuriosito da tutti. Per ognuno apre un fascicolo, lo compila, raccoglie informazioni che vanno dai traumi fondanti alle preferenze culinarie, e dopo aver delineato il profilo lo arricchisce, ne fissa i contorni, aggiunge colori. L’archivio si accresce; noi siamo lusingati dall’interesse sincero, ne sono sicuro, che lui mostra nei nostri confronti; tutti già pensiamo a quando ce ne vanteremo in giro. «William Vollmann, quello di Europe Central, mi ha chiesto se preferisco il vino bianco o il vino rosso».
Bill ha sempre una parola gentile per te; non guarda nessuno dall’alto in basso, eccetto se stesso.[2] Bill si porta dietro lo strascico di una grave malattia e ne parla con calma, senza mai lamentarsi, per non appesantire la discussione. Chiede scusa se interrompe, tace se qualcuno gli parla sopra. Quella T sta per Tanner. Tanner è nato a Santa Monica ma vive a Sacramento, ha uno studio in un mai specificato «brutto quartiere» e per difendersi ha comprato sette armi da fuoco. L’FBI pensava che Tanner fosse Unabomber, poi che mandasse antrace per posta.
Bill ordina uno spritz ma non lo beve. Gli diciamo più volte che se non gli piace può ordinare qualcos’altro. Lui scuote la testa, dice che è buonissimo e poi non lo tocca più. Parliamo di sigarette, delusioni d’amore, mendicanti. Approfittando dell’atmosfera gioviale e del suo fianco scoperto gli chiedo, dal nulla, il perché dei sigilli demoniaci all’inizio di Ultime storie e altre storie.[3] Mi risponde che con quella raccolta voleva sperimentare diversi punti di vista su diverse questioni, ambientando i racconti che la compongono dal Sud America all’Italia al Giappone. Non saprò mai se Bill non abbia capito la domanda, se non abbia voluto rispondermi, se il mio inglese abbia vacillato o si tratti soltanto della mia paranoia. Gli ripeto la domanda. Tanner fa un mezzo sorriso, mormora: «Alcuni di quei simboli sono molto potenti, vero?»
Mi convinco che non voglia parlarne. Smetto di insistere, bevo il mio campari spritz, Chiara beve il suo aperol spritz. Chiedo a Bill se gli dà fastidio il fumo: lui scuote la testa ridendo, mi assicura che non gli do nessun disturbo. Lo osservo: il naso, le guance, le palpebre torturate da microespressioni nervose in continuo mutamento come una superficie liquida che nasconda un gorgo. Spengo la sigaretta, lasciamo il primo di molti tavoli. Dopo due Negroni,[4] qualche sera dopo, ci alzeremo da un altro di quei tavoli e io mi offrirò di accompagnarlo in hotel. «Thank you, my friend», mi risponderà.[5]
Sforzarsi di separare da noi l’oscurità che abbiamo dentro è un modo molto efficiente per avvelenarsi. L’Ombra junghiana, no? Un processo continuo di accettazione, di integrazione dell’oscurità. Ci sono parti di noi che rifiutiamo, ma sono parti di noi. Siamo sempre noi.
Ho incontrato William Vollmann molte volte nelle due settimane del suo tour italiano: si comportava sempre come fosse la prima. Gli occhi chiarissimi, senza sopracciglia a incorniciarli,[6] come quelli di un gatto, gli rendono facile non lasciar trasparire emozioni, aspettare che sia l’altro a inaugurare lo stato d’animo che farà da base alla conversazione successiva o anche solo al breve scambio di saluti che tendeva a riproporre se non mi vedeva da qualche giorno, ma anche se ci reincontravamo per l’aperitivo dopo esserci lasciati a pranzo. Voglio capire se ti ricordi di me, se la tua stima per me è ancora intatta, sembrava dire. Voglio vedere se mi sorridi, se a quel sorriso dovrò rispondere.
Le braccia rigide lungo i fianchi, con i pugni chiusi anche quando, raramente, gesticola, come un timido Hitler che protegga il pollice sotto le altre dita, lo strabismo che gli impedisce di calcolare la profondità degli ambienti, il curioso taglio di capelli, le stesse scarpe da trekking e gli stessi jeans indossati con noncuranza sotto qualsiasi maglietta gli venisse regalata da questo o quell’organizzatore,[7] restituiscono l’immagine colossale di una pericolante torre di Babilonia, un grattacielo che ha trovato il modo di piegare l’acciaio e il cemento modellandoli affinché il suo profilo non spiccasse troppo e la sua ombra non oscurasse gli altri presenti, attirando l’attenzione e forzandolo così a rispondere di una maestosità che Vollmann non si riconosce e non si riconoscerà. Uno sforzo di umiltà consapevole, una repressione volontaria, la fretta di incurvarsi fin quasi a crollare per poter ascoltare chi vuole abbracciarlo o aggredirlo: lui non sembra far distinzioni, e forse è questo il lavoro che lo ha tenuto impegnato per più tempo e gli ha richiesto più fatica. L’annullamento di uno spazio vitale di cui si sente insignito suo malgrado più che naturale proprietario e che lo imbarazza, costringendolo a una disciplina costante per lasciar fluire il racconto di chi gli sta di fronte, senza interromperlo con commenti e giudizi.
È da questo senso di indeterminazione, più che di inadeguatezza, da questo tentativo superegoico/buddista di annullamento che è nato William Tanner Vollmann? È stato il tentativo continuo, tutt’ora in corso, di mantenere in vita la percezione di essere frutto di un errore, al punto da indentificarvisi e trasformarsi così volontariamente in una ferita aperta nello spazio-tempo, a dare vita a quella pulsione di morte che lo ha spinto a partire, ventenne, per l’Afghanistan, a rischiare una storia d’amore per ospitare e intervistare un gruppo di skinhead di estrema destra?
Forse le sue ampie riflessioni sulla guerra, sulle catacombe, i racconti sulle autopsie, i tanti reportage scritti sul filo della catastrofe in Bosnia, in Jamaica, nel Tenderloin di San Francisco hanno una radice comune, e cioè l’attrazione magnetica che può derivare solo da un senso di appartenenza, di ineluttabile contiguità con l’oggetto trattato: l’annullamento, appunto, la decomposizione di sé che rende sempre più esiguo lo spazio necessario all’esistenza, sempre minore il disturbo arrecato a un mondo che, a ragione, ci percepisce come un bug di sistema e fa di tutto per farci fuori.
Sarebbe facile rintracciare la genesi di quello che, riassumendo, potrebbe definirsi nient’altro che un invincibile senso di colpa: la morte della sorella, quando lei aveva sei anni e lui nove, ed era «incaricato» di sorvegliarla. L’incarico fallì, la bambina annegò, lui se ne assunse la colpa. E la colpa (dice Vollmann) è stata la probabile scaturigine del suo conseguente posizionamento nella realtà: aver commesso uno sbaglio inemendabile e sentirsi di conseguenza un’appendice infetta, che non sarà mai più utile a nessun organismo.
Questa storia non mi ha mai convinto: il sottotesto dei racconti di Vollmann sulle varie fasi della sua vita mi pareva sempre suggerire una personalità in qualche modo già plasmata, non dipendente perciò dall’infame trauma che al massimo ne ha consolidato le basi. Il padre, «un tedesco», irascibile e violento, lo picchiava «anche senza motivo»; la sua vista bidimensionale e la conseguente goffaggine hanno creato un ambiente in cui non poteva esserci lo sport, lo spirito di squadra, e quindi, più tardi, niente feste e ragazze, niente sogno americano; il trasferimento dalla California al New England, un eradicamento che ha acuito la sua incapacità a integrarsi e la sua tendenza a isolarsi; tutte queste cose hanno spinto il giovane Bill a chiudersi in uno spazio sempre più ristretto, poi a rinchiudervisi, in compagnia dei libri, evitando il diritto di apparire e forse l’idea stessa di appartenenza, riducendo la propria impronta materica per accumulare cosmogonie narrative[8] da restituire poi, cooptate e deformate, a quella terza dimensione cui non gli è consentito accedere. Stando a ciò che ho visto di persona non credo che l’origine di questa letteratura fusionale a un livello così alto, cui pressoché nulla si può paragonare, vada ricercata in un singolo episodio, per quanto demarcativo. Che William Vollmann sia un genio autistico il cui pennello ha attinto a qualche Archetipo, o soltanto un diligente scrittore massimalista di ineguagliabile originalità, alla fine è riuscito a incanalare la tendenza al non esistere e a trasformarla in un Moby Dick da inseguire (senza speranza, ovviamente), in decine di viaggi, in migliaia di pagine, trasformando l’impossibile ricerca del punto in quella, altrettanto destinata al fallimento, dell’infinito, una massimalista operazione d’accumulo che sa di non poter giungere a compimento.
Non per niente la sua prima spedizione, Afghanistan Picture Show (ma, in modo più o meno implicito, un po’ tutta la sua opera non strettamente fiction) si apre con l’autore che, sottotitolando sardonico «Come ho salvato il mondo», dichiara di non essere servito a niente. Di aver affrontato questioni troppo grandi per lui. E lo hai fatto apposta, mi viene da dirgli. Affrontare in solitaria imprese che sono state fallimentari anche per intere nazioni, di cui nel corso della storia nessuno è riuscito a venire a capo, dimostrando, tramite atti di straordinario coraggio e comprensione dell’altro, di non aver fatto la differenza: solo così si può scrivere così tanto e al contempo così bene di persone lontanissime che la maggior parte di noi non vedranno e della cui esistenza non sapranno mai, e poter annunciare con fierezza di aver naufragato.
Come interrompere, dunque, il loop di un’esistenza percepita come sbagliata, persino ostile? Arrendersi al debug del sistema e dunque eliminarsi riconoscendosi come errore è una soluzione efficace. Ma non è l’unica.
Si può, come mi ha sussurrato l’astuto Vollmann portando intenzionalmente il discorso su un piano molto più superficiale, «semplicemente essere buoni. O almeno sforzarci continuamente di essere brave persone, di aiutarci l’un l’altro». Cosa vuol dire? Come il suo pensiero e il suo lavoro hanno declinato questo concetto così scontato, che potrebbe essere formulato da un bimbo del catechismo e a cui nessuno porrebbe obiezioni? La risposta è la sua stessa produzione letteraria: un bianco Leviatano la cui lussureggiante imponenza ha portato Jonathan Franzen a dirsi basito di fronte all’amico che, per documentarsi, leggeva grossi libri tutti d’un fiato occupando solo una parte del pomeriggio, e David Foster Wallace a confessare di avere un complesso di inferiorità[9] verso il collega-rivale. Da Afghanistan Picture Show (ma forse già dal primo romanzo[10] scritto di nascosto sul posto di lavoro, un ufficio dove si fermava fino a notte mangiando barrette dal distributore automatico e cercando di non farsi vedere da guardiani e inservienti) e dalla sua compiaciuta dichiarazione di fallimento è spuntato il baccello di Come un’onda che sale e che scende, e poi Poor People e, forse, anche il volume sulla CIA a cui stava ancora lavorando quando ci siamo abbracciati, il giorno prima che tornasse in America.
Sì, sto male, sto malissimo. Tutti i giorni. Però ho perso peso; questo mi fa sentire meglio. Forse tu morirai di cancro ai polmoni. Tutti dobbiamo morire. Ahahah! È la vita, giusto? No, no, meglio: è la morte.
«Sono una prostituta onesta», ripete Vollmann parlando dell’edizione ridotta di Rising Up and Rising Down. In privato, al tavolo di un ristorante, o intervistato da Simona Vinci[11] a Cinecittà davanti a un folto pubblico, è questa la prima cosa che ha fretta di confessare: la cifra offertagli lo ha convinto ad accettare la proposta dell’editore di tagliare l’opera integrale ricavandone un unico, grosso, volume, quello tradotto da Gianni Pannofino e portato in Italia prima da Mondadori e poi riproposto da noi di minimum fax.
«Ci ho messo vent’anni per scriverlo e un’ora per ricavare l’edizione ridotta», scherza (non proprio) Bill. «Se l’idea fosse stata quella di ridurre ciascun saggio ne sarebbe derivata una raccolta di tanti capitoli incompleti. Ho preferito lasciarne pochissimi, ma integrali, cosicché almeno si capisse cosa cercavo di fare».
Sette volumi, coi numeri romani dorati sul dorso, racchiusi in un cofanetto rosso: questo è Rising Up and Rising Down nella sua versione completa. C’è un motivo, dice, se il libro è così lungo. I sei volumi, più uno intitolato «MC», erano necessari per fare un tentativo di spiegare a se stesso, e poi a noi, cos’è la violenza, quando è giusta, quando e se è legittimo usarla per difendersi e perché, che differenza c’è tra insurrezione e «de-surrezione»[12] e quando una può sfociare nell’altra; tutto ciò al fine di comporre il «Calcolo morale», ovvero il punto dell’opera, ciò da cui tutto parte e che gli altri sei «capitoli» cercano di approfondire: la sistematizzazione per aree tematiche dell’aspetto più atroce della natura umana (e non a caso quello su cui Vollmann ha indagato e scritto di più): la nostra tendenza alla distruzione reciproca. Partendo dal Calcolo morale Vollmann si chiede prima quando sia giusto usare la violenza per difendersi, fino a che punto, e poi, specularmente, quando sia ingiustificato. L’opera è composta da profili storici (su Napoleone, Giulio Cesare, il marchese de Sade, Cortéz, per dirne alcuni) e studi monografici (reportage e interviste da lui condotte) scritti in tutti i continenti, soffermandosi su quelle parti del mondo dove la violenza è più presente e perciò giustificata da chi sente la necessità di usarla per difendersi da qualcuno che, molto probabilmente, dirà che si sta difendendo a sua volta, o che sta muovendosi per necessità.[13] E allora, dalla Cambogia al Darfur, dalla Bosnia all’Afghanistan, dai Vichinghi a Carlo Magno a Hitler, chi è stato ad accendere la miccia? Chi ha attaccato per primo? In una domanda, perché la violenza?
I sette volumi, naturalmente, non danno una risposta. Questa mastodontica prova di analisi, tanto profonda da arricchire il senso della moralità di chiunque la legga sul serio, è di nuovo un fallimento dichiarato, proprio come Afghanistan Picture Show. Perché dopo i sei tomi di storia, filosofia, antropologia che fanno da appendice al Calcolo morale, l’autore giunge alla conclusione che «bisogna aiutarsi l’un l’altro», e tant’è.
Ci ho provato, dice Vollmann. Sono entrato nel labirinto, ci ho passato vent’anni, ho disegnato una mappa molto minuziosa. La soluzione è molto semplice: non c’è soluzione. Cerchiamo solo di non farci del male a vicenda.
Poi prende il suo capolavoro e lo getta nel fuoco.
A questo punto Ahab, come sempre, impara dalla sconfitta precedente e fa sistemare gli alberi e ricucire le vele. Qualora dovesse vincere la sua battaglia sa che per lui sarà la fine, quindi prepara la prossima sconfitta.
«Intervistavo gente in giro per il mondo, per Come un’onda e chiedevo sempre se la violenza subita e quella inflitta fossero giustificate, a seconda del contesto. Le risposte tendevano ad accomunarsi, mi sono accorto che potevo raccoglierle e classificarle in diramazioni complesse, il che ha nutrito il Calcolo morale e l’ha espanso. Se le persone a cui parlavo erano indigenti gli chiedevo sempre: “Perché sei povero?” Mi sono accorto che le loro risposte qui cambiavano. Assumevano una marcata denotazione geografico-culturale. Così è nata l’idea che sarebbe poi diventata Poor People».
Poor People, in breve, è un’indagine approfondita sulla povertà. Sulle spalle di Sia lode ora a uomini di fama, ma anche di san Francesco,[14] Vollmann intervista i poveri in Russia, nelle Americhe, nel Sudest asiatico, e gli chiede «Perché siete poveri?» La collezione di opinioni e negazioni[15] che ne deriva crea un’altra galassia, caotica e organizzata fino all’ossessione (si veda la «Tabella delle entrate» all’inizio del libro, che calcola gli introiti dei poveri e li mette a confronto, divisi per area geografica), corredata di un centinaio di fotografie.[16]
Hai scritto un altro capolavoro?, si inquisisce Vollmann. Come ti sei permesso? E scrive subito un’introduzione in cui dichiara fallito, guarda un po’, «l’incarico» di capire un altro perché, profondo quanto quello sulla violenza. Confessando una derivazione d’intenti dal classico di Agee ed Evans, che comunque definisce un capolavoro proprio in quanto fallimentare, Vollmann dichiara di volerne però ampliare lo sguardo, collezionando così un altro classico di eguale importanza, penseremo noi. E invece no: è un fallimento ancora più grande, e bisogna, al solito, dirlo nelle prime righe dell’introduzione, in cui figurano, puntualissime, le parole inadeguatezza e senso di colpa.
Queste e altre riflessioni con cui non vi tormenterò tormentavano me quando sedevo di fronte a Bill, il migliore dei migliori, il Leviatano che insegue se stesso, che ha passato la vita a chiedere al mondo «perché la violenza, perché la povertà, perché la morte?», e volevo chiedergli, non in sottotraccia, non per vie traverse (come ho fatto, goffo, più volte), ma direttamente: perché ti interessa? Perché il folle volo? Perché il viaggio all’inferno? Perché un talento ineguagliato affila le sue armi contro se stesso? Perché non vuoi riconoscerti la grandezza? Perché ami, o dimostri di amare, gli esseri umani? Che cazzo te ne frega? Perché?
Gli chiedevo, invece, se avesse dormito bene, se avesse amici giornalisti, se avrebbe finito le pizzette dell’aperitivo, altrimenti le avrei mangiate io.
Lisa era un’alcolizzata, e ha bevuto fino ad ammazzarsi. Le avevamo detto che se non avrebbe smesso l’avremmo cacciata di casa, e l’abbiamo fatto. Per un po’ è stata una senzatetto. Non è facile gestire il senso di colpa, l’idea di essere una persona malvagia. Ma Lisa non ha sofferto come chi viene torturato e ucciso per crudeltà deliberata. Non c’è paragone. A Lisa è andata meglio.
È il 12 settembre, l’anniversario della morte di David Foster Wallace. Grazie a lui ho saputo che esistevano i Pop-Tart e William Tanner Vollmann e tanto altro.[17] Simona Vinci gli sta chiedendo qual è stata la sua prima esperienza con la violenza. Vollmann risponde raccontando la storia del padre, quello tedesco che lo picchiava senza motivo. Stavolta però aggiunge che tutti, in un modo o nell’altro, devono avere quel primo incontro con la brutalità, che fa parte della vita. Può diventare addirittura il tuo lavoro. Quando doveva scrivere di autopsie, per Come un’onda, ma soprattutto per le Storie dell’arcobaleno, Vollmann ha intervistato una coroner di San Francisco. Gli ha assicurato che è come avere a che fare con la macellazione degli animali,[18] o con quella numbness che si registrava nei soldati della prima guerra mondiale, dopo lo shellshock:[19] che tu debba uccidere in guerra, macellare per nutrirti o aprire un cadavere per capire come è diventato cadavere, il tuo cervello si adatta in modo che tu ricordi la prima vittima, la prima volta. La decima, la centesima, alla lunga non le ricordi più.
C’è bisogno, quindi, di questo rito di passaggio, perché altrimenti quando la natura umana si toglie la maschera si fa fatica a riconoscerla. Forse il pollice opponibile è il risultato di un desiderio soltanto, quello di stringere un’arma in pugno per uccidere il prossimo e rispondere così alla nostra natura. Per abituarsi all’inevitabile.
C’è un contraltare, per quanto orrendo, dunque, nel subire violenza: si impara cos’è la vita e abbastanza presto si può cominciare a decidere se e quanto viverla. In un certo senso è la stessa risposta che Vollmann dà quando gli si chiede se non abbia sofferto tutta questa solitudine, questa incapacità a integrarsi che gli ha donato una formazione letteraria e intellettuale fuori dal comune: «No», dice, «anzi: provo un senso di gratitudine. Essere escluso mi ha insegnato l’empatia». Quell’empatia che rende così speciali (e così lunghi) i suoi libri, così intime e delicate le sue fotografie, che l’ha spinto a vestirsi da donna e passeggiare, indossando una parrucca, di notte per le strade di Sacramento, ricevendo insulti di tutti i tipi e anche qualche bottiglia in faccia, per l’impossibile compito di capire cosa si prova, e ricavarne poi un libro.[20] Un’empatia senz’argine che fa di Vollmann molto più di un abilissimo reporter, che ne rende impossibile l’incasellamento perché Vollmann ha creato da sé la propria casella, ma non gli dà importanza, non la vuole e se fosse per lui la regalerebbe ai senzatetto come ha fatto col cortile di casa sua.[21]
Non partecipo al firmacopie perché non fumo da due ore, e non fumare, come fumare, mi regala una tachicardia che non riesco a reggere. Bill ha risposto a tutte le domande, si è speso, si è donato di nuovo a tutti. «Non sapevo se venire in Italia, sapete, dopo la morte di mia figlia. Ho pensato di annullare tutto. Ma mi sta facendo bene. Stare qui mi fa sentire meglio. Vi sono molto grato». Bill deve salire su un aereo all’alba, sono le dieci di sera ma chiede comunque di bere qualcosa con noi. Capitiamo in un bistrot piemontese. Sono mai stato al museo egizio di Torino?
Dopo cena passeggiamo con William Vollmann per l’ultima volta. Un addio[22] cinematografico nella Suburra. Sulla strada per l’hotel il mio amico Tanner mi prende da parte, mi circonda le spalle con un braccio, mi fissa guarendo all’istante da tutti i suoi tic. «Ascoltami», dice con un ghigno; ha visto qualcosa. Lo ascolto, in silenzio.
[1] I virgolettati e le citazioni in corsivo sono mie rielaborazioni. Non sto citando alla lettera. Ne avevo bisogno per chiarezza redazionale.
[2] Volevo sintetizzare in una frase la differenza tra il Vollmann che mi aspettavo di conoscere e quello che ho conosciuto. Avevo preparato una lista di chiusure a effetto, come Montanelli e Joan Didion. Non sono in grado, quindi ecco una nota con tre righe di introduzione.
L’austero gigante di permafrost dallo sguardo letale, con un cervello connesso al wi-fi di Dio e terminazioni nervose disseminate per l’universo, incapace di amare in quanto amante di una razza diabolica, forse era nascosto tra le pieghe a deriderci. L’uomo gentile, affettuoso, sempre attento ai bisogni del suo prossimo, che ha commosso un po’ tutti quando ha mostrato dolore (reciproco) nel separarsi da noi forse è soltanto una maschera molto convincente, indistinguibile da ciò che ho visto durante le due interviste «private» a cui ho assistito, e in cui ho cercato di fare da interprete: in quei frangenti veniva fuori l’intellettuale che scandisce le parole giuste e spalanca in pochi istanti voragini morali lasciandole poi appese nel vuoto, lo sguardo inamovibile della vipera che si compiace di essere esiziale, chirurgica, sotto la luce freddissima di un tubo al neon. O forse la maschera era proprio questa. Che ne so.
[3] Non sono scarabocchi da film dell’orrore, ma vessilli demoniaci «reali», se credete in queste cose un po’ oscurantiste. Provengono dalla Goetia, o ne sono fortemente influenzati, e servono a invocare entità demoniache per trarne un rischiosissimo vantaggio personale, ciò che in gergo viene definito «low magick».
[4] Bevuti, questi sì, in pochi sorsi.
[5] Mi sono sorpreso più volte a pensare che quel «my friend», dopotutto, potesse non essere del tutto un convenevole; mi gonfio di boria, poi scaccio il pensiero. Però lo sto scrivendo, quindi il bambino narcisista che è in me ha trovato un modo adulto per dire «Mamma, William Vollmann mi ha chiamato friend! Dice che dovrei scrivere un libro su Aleister Crowley!» e vuole vantarsene, almeno in una nota a piè pagina. Sono sicuro che nessuno si farà fuorviare.
[6] Nei Fucili, quarto capitolo dell’incompiuta serie di sette romanzi («Sette Sogni») sulla fondazione del continente americano, spiega come le ha perse. Doveva far partire un generatore a gasolio per salvarsi dall’assideramento, o qualcosa del genere. Poteva andargli peggio.
[7] Noi compresi. L’ho visto farsi appuntare al petto una spilletta con una scritta che non ricordo, e di cui credo lui non abbia neanche chiesto la traduzione. La mia descrizione può far pensare a una persona trasandata, che non si cura di come appare: mi è parso di capire, da subito, che non sia affatto così. I riferimenti di Vollmann al suo aspetto fisico (lo detesta), al suo taglio di capelli («è brutto, è strano, lo è sempre stato»), a come tutto questo viene percepito, sono stati uno scherzoso contrappunto di quasi ogni nostro scambio, tanto da indurmi a concludere che ci pensa molto di più di quanto voglia mostrare.
[8] Non uso il termine a sproposito, non ce n’è bisogno. L’acciaio che si mette in moto in Europe Central, le lettere ebraiche, cioè il Verbo, la genesi «cabalistica» della seconda guerra mondiale come la genesi della Genesi, sono una cosmogonia della guerra, e cioè della natura umana o, se vogliamo essere ottimisti, di una sua parte sostanziale.
[9] Se può interessare a qualcuno, devo dire che non ho mai creduto DFW, Ismaele, avesse complessi di inferiorità verso chicchessia, neanche verso Don DeLillo, al quale pure scriveva lunghe lettere d’encomio. Un piccolo dubbio, però, che l’avesse davvero maturato verso William Vollmann, ce l’ho.
[10] You Bright and Risen Angels.
[11] Che ringrazio, perché ho tratto informazioni utili su WTV dalla sua intervista-presentazione del 12 settembre 2022.
[12] Vollmann conia il verbo to rise down, letteralmente «sollevarsi verso il basso», per parlare di oppressione, specialmente quando scaturita da una rivoluzione, ovvero il suo opposto e, paradossalmente, la sua causa scatenante. Questo in due righe. In sette volumi, ne sono certo, è spiegato meglio.
[13] La nostra nuova edizione di Come un’onda si apre con una prefazione inedita, dove l’autore si interroga sulla guerra russo-ucraina e dice che Putin, senza dubbio l’invasore, ha senza dubbio le sue ragioni. Come tutti gli invasori, quando chiamati a rispondere, Putin si dipinge come una vittima: dice di star proteggendo il territorio dai neonazisti, di sentirsi accerchiato dalla NATO. Motivazioni campate in aria, nient’altro che vili pretesti, lascia intendere Vollmann, ma di più o di meno rispetto a quelli di Bush e Cheney e della guerra in Iraq del 2003? Dov’erano quelle armi di distruzione di massa per cercare le quali sono morte migliaia di persone? Quando si è scoperto che non c’erano avremmo dovuto guardarci alle spalle e derubricare il tutto come un’aggressione, un’invasione immotivata di un paese sovrano, proprio come sta succedendo oggi in Ucraina? E se avessimo ascoltato le ragioni di Putin avremmo potuto evitare questa violenza, almeno in parte? E se non avessimo creduto a Colin Powell? Forse quella che Vollmann definisce «guerra criminale» non ci sarebbe stata?
[14] Non sto facendo l’agiografia di Vollmann paragonandolo al leggendario patrono d’Italia che parla coi lupi e gli uccelli (a volte mi faceva venire in mente, semmai, santa Caterina da Siena). Ma Giovanni, figlio di Pietro, che probabilmente veniva chiamato Francesco per i «panni franceschi» che arricchivano suo padre, Francesco che era l’anima delle feste tra ragazzi benestanti, dopo una vita passata a desiderare l’«addobbamento», il cavalierato, dopo aver partecipato alla sfortunata guerra contro Perugia e aver probabilmente tanto sperato di partire in crociata, non maturò forse una morbosa ossessione per la povertà, tanto da volerne vivere ogni sfumatura in prima persona e scegliere di morire su una lastra di pietra? E, cosa più importante, non lo fece da privilegiato?
[15] «Non sono povera, perché ho Allah», per esempio. Cosa mai si potrebbe obiettare?
[16] Fotografie meravigliose, probabilmente frutto di una selezione tra almeno un migliaio. Se ne avesse scelte il doppio si sarebbe potuto pubblicare Poor People in due volumi, di cui uno solo fotografico. Se la fotografia ha il compito di catturare un istante, quelle di Vollmann portano a termine il lavoro; se invece la missione del fotografo è quella, più complessa, di raccontare una storia attraverso un’immagine, anche qui le fotografie di Poor People raccontano a chi voglia sapere, e lo fanno con una sensibilità e un amore per il soggetto che non ritengo emulabili, per quanta competenza tecnica si possieda. Per fotografare come Vollmann bisogna sentire come Vollmann, e probabilmente bisogna essere Vollmann. Gli ho detto queste cose (incensandolo un po’ meno) e lui, incapace di maneggiare i tanti riconoscimenti che in quei giorni gli piovevano addosso, con un gran sorriso ha detto «Awww, grazie», come se gli avessi regalato una scatola di cioccolatini.
[17] Una stanza che brucia, le masse d’aria scandinave che spengono l’estate da un giorno all’altro. L’anticiclone che striscia verso il Nord Africa. La geometria. Seguiva paragrafo su DFW e WTV e JFK eccetera. A destra della mia scrivania in ufficio c’è un post-it con una scritta a penna: «Ero tutte le cose».
[18] Vollmann ha anche fatto questo «mestiere», lavorando come rancher. Dice che poi non ce l’ha più fatta. Che non potrebbe più farlo. «I maiali, soprattutto», dice, con la stessa espressione addolorata che assume quando parla di profughi o bombardamenti. «Capiscono tutto. È orribile».
[19] Che adesso si chiama «PTSD».
[20] The Book of Dolores. Dolores, però, non è un travestimento, assicura lui. È una donna vera. E, aggiungo io, sorride quasi sempre, a differenza di Bill.
[21] I senzatetto ospitati da Vollmann devono però rispettare un calcolo morale preciso, di cui ricordo solo «non far del male agli altri senzatetto» (e ai padroni di casa? E ai vicini?) e «non introdurre droghe e bevande alcoliche» (e l’erba? E il Vicodin?). Questo set di regole, insieme al discorso sul possesso delle armi, è la cosa più repubblicana, e per estensione americana (scusatemi), che gli ho sentito dire.
[22] Che è sempre un arrivederci, magari a presto. Chissà.
Categorie: letteratura, libri, ritratti · Tag: William Vollmann
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