'Titane' un delirio di violenza, metallo e profondi sentimenti - Taxidrivers.it

2022-10-09 00:05:57 By : Ms. Vicky Lei

Sulla scia del controverso trionfo a Cannes con l’assegnazione della Palma D’oro, arriva nelle sale Titane.

Il film è l’opera seconda della talentuosa regista Julia Ducournau, che aveva già sconvolto il pubblico dei festival con il suo esordio Raw. Durante la proiezione del film al Toronto Film Festival, infatti, alcuni spettatori erano svenuti a causa delle numerose scene cruente.

Questo evento è stato il  biglietto da visita per l’uscita nelle sale di questo film brutale, ma bellissimo e unico. A cinque anni di distanza la regista torna a scioccare ed emozionare con una pellicola per stomaci forti, ma sicuramente interessante e più che mai coraggiosa. La ricompensa è stata infatti l’assegnazione dell’ambito premio a Cannes.

Il film vede come protagonisti la bravissima Agathe Rousselle e il famoso attore francese Vincent Lindon.

A seguito di un incidente d’auto, alla piccola Alexia viene impiantata una placca di metallo in testa. Da questo episodio, però, ella svilupperà un amore per le automobili, che la porterà da grande a lavorare come ballerina proprio in un autosalone. La donna, però, ha un comportamento decisamente irruento e brutale, e si macchia di numerosi omicidi. Per questo motivo è costretta a fuggire di casa e per eludere le forze dell’ordine, che le danno la caccia, assume le sembianze di un ragazzo. Viene poi accolta da un uomo particolare che la crede il figlio scomparso, con cui stringerà un inaspettato legame.

Qualcosa cola attraverso l’intricata rete di componenti della carrozzeria di un veicolo nei primi fotogrammi del film. É sangue? É olio? Forse entrambi, verrebbe da chiedersi. Sì, perché proprio di questi due liquidi si compone il film. Liquidi che spesso si sostituiscono uno con l’altro diventando quasi una cosa sola, annullandone ogni differenza. Già dalle primissime inquadrature, quindi, capiamo  di che pasta sarà fatto questo Titane. Il film gioca molto su questi due elementi e su come essi convivano in maniera placida e assolutamente naturale nel mondo pensato dalla Ducournau. Un mondo di rapporti morbosi tra uomini e macchine, ma forse semplicemente tra uomini e basta.

Alexia ha un rapporto decisamente unico con i veicoli, tanto da consumare anche veri e propri rapporti sessuali con gli stessi. Il film però, dietro alle stranezze che possono apparentemente far storcere il naso in termini di realismo e di senso vero e proprio di ciò che stiamo vedendo, nasconde ben altro. La Ducournau invita lo spettatore a risalire alla radice di ogni evento a cui assiste e a rielaborarlo dal punto di vista umano, offrendogli la possibilità di scavare e risalire alle cause, alle implicazioni, agli effetti. Ed è così che, dietro alla apparente volontà di realizzare un film volto solo a scioccare e turbare, si nasconde un racconto di vibrante umanità e di sottili sentimenti. Le emozioni sono velate, suggerite, quasi si mimetizzano dentro l’affascinante universo in cui si muovono i personaggi di Titane.

“Invecchiare di colpo. Succede. Soprattutto se un tuo film partecipa a un festival. E non vince. E invece vince un altro film, in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac. Invecchi di colpo. Sicuro.”

Con questa frase, postata sotto una sua foto pubblicata sui social, Nanni Moretti reagisce alla vittoria della pellicola a Cannes. Il regista era in concorso con il suo “Tre piani“, che è rimasto a bocca asciutta in termini di premi e anzi ha ottenuto riscontri abbastanza tiepidi di pubblico e critica.

Quello che conta è che al di là di queste brevi righe provocatorie si nasconde una profonda verità: il cinema sta cambiando. Sta prendendo coraggio, si sta reiventando, sta cercando nuove strade, talvolta fallendo e talvolta convincendo, come in questo caso. Non è una novità che Julia Ducournau stupisca, visto che già con il suo precedente Raw aveva saputo creare un film destinato a turbare e colpire in profondità lo spettatore. Il fatto che sia stata consegnata la Palma d’Oro a un film del genere, quindi, indica quanto questa audacia sia stata notata, apprezzata e premiata. É difficile, infatti, realizzare un film che riesca a fondere una estetica e un immaginario così assurdi a  tematiche assolutamente attuali come la sessualità, l’identità e la fluidità di genere e rapporti umani ormai sempre più svincolati da legami standardizzati.

È un cinema inospitale quello di Julia Ducournau. Un cinema che prima dell’approccio richiede preparazione mentale e fisica, perché la violenza è presente in dosi massicce e si consuma senza esclusione di colpi. Titane in questo è forse ancora più ostico del precedente Raw, dove a farla da padrona era il sangue e la carne cruda, viva. Qua lo shock è più variegato in termini di situazioni: si passa da un fermaglio per capelli infilato nelle orecchie (modus operandi di Alexia che si rivela un’azione sistematica e ormai rodata) a un naso rotto di proposito contro un lavandino. Quello che rende il film tosto da vedere è come l’azione, ancor prima di essere visivamente cruda e realistica, la sia già anche solo quando è suggerita o anticipata. Il solo pensiero che avverrà quello che ipotizziamo basta già a irrigidirci e prepararci al momento in cui l’azione si compirà.

La prima metà del film in particolare è ricca di scene dal forte impatto visivo, mentre la seconda si concentra di più sul tratteggiare un complesso e particolarissimo legame padre/figlio. La violenza presente in Titane in alcuni episodi risulta però non sempre così necessaria ai fini narrativi e semantici. Viene quasi da chiedersi se sia sempre così giustificata e non diventi invece un divertissment in cui la Ducournau si diverte a imbastire uno shock un po’ fine a sé stesso. In questo Raw era più equilibrato: lì la violenza era presente con sapiente misura per tutta la pellicola ed era sempre funzionale al racconto. Qui invece sembra quasi che la regista si sia lasciata un po’ prendere la mano. Questo aspetto però non mina l’esperienza, che risulta appagante e stimolante.

Alexia, dopo essere rimasta incinta dalla Cadillac, scappa di casa e nei bagni di una stazione attua la sua “trasformazione” da donna a uomo. L’obiettivo è fingersi Adrien, un ragazzo scomparso da dieci anni. Viene a riprenderselo il padre del ragazzo, Vincent, che lo riconosce e lo riporta a casa. L’arduo obiettivo di Alexia da questo momento in poi sarà cercare di mantenere il suo segreto in un certo senso duplice. Il primo è la sua vera sessualità, e il secondo è la creatura che porta in grembo. A proposito di quest’ultima non smetteremo per un secondo di chiederci con estenuante curiosità come sarà fatta.

Nella sua nuova vita Alexia è costretta a muoversi con cura, sia fisicamente che metaforicamente. In un contesto abitato da figure maschili come una caserma dei pompieri, dove lavora il padre, il rischio di rivelare la propria gravidanza e inevitabilmente la propria identità è altissimo. La donna non può far altro, dunque, che sopprimere le forme che definiscono la sua sessualità di donna e madre legando stretta una benda attorno a sé. Il discorso sulla libertà di genere assume così una valenza universale, allargandolo a un contesto più ampio. Nel potente finale di Titane capiamo che la Ducournau spera che chiunque abbia determinati blocchi mentali e preconcetti relativi all’identità di genere metta in primo piano la persona, al di là del sesso.

Vincent è un vigile del fuoco che si dopa ogni giorno e si allena per mantenere una forma fisica tonica e mascolina. Inoltre, entusiasta del ricongiungimento con quello che lui crede essere il figlio, vorrebbe instaurare un certo tipo di rapporto con lui. Un rapporto con momenti anche di esternazione fisica dell’affetto e una condizione di estrema serenità nei confronti della propria nudità. Alexia/Adrien, però, per ovvi motivi, mostra riserbo e vergogna; cosa che viene letta dal padre come una non completa fiducia e stima. È però con l’evolversi di questo rapporto sul filo del rasoio che il padre col tempo accetta e rispetta gli spazi del figlio, e non lo forza assolutamente a far nulla.

In questo la Ducournau è sottile, perché tratteggia una figura apparentemente mascolina e priva di qualsiasi tipo di tatto, rivelandone però una sensibilità e accortezza ammirevole. La figura del macho viene così svelata e decostruita pian piano dei suoi stereotipi. Questo evidenzia come possano convivere una forte dose di testosterone, ma anche un grande cuore e una spiccata sensibilità in un uomo apparentemente monodimensionale.

Il padre effettivo di Alexia è una persona distante, quasi anaffettiva, che viene ripresa spesso nell’atto di guardare, quasi mai di agire. Guarda Alexia mentre le viene impiantata la placca di metallo in testa. Guarda il telegiornale assorto nei suoi pensieri. Guarda la figlia tornare a casa a notte fonda, e la guarda andarsene, lasciandosi chiudere la porta della camera da letto a chiave. Come contraltare abbiamo Vincent, un vigile del fuoco, un uomo d’azione. L’uomo dimostrerà di avere però tutto quello che il padre effettivo non aveva, da qualsiasi punto di vista. Non è un padre perfetto, ma si dimostra una persona comprensiva e rispettosa, gettando così le basi di un rapporto con Alexia sempre più profondo e concreto.

Con la scena del riconoscimento di Vincent del figlio, la Ducournau riesce con un audace colpo di coda a cambiare il focus del suo racconto. A dispetto di quello che può sembrare, non è più il racconto di una donna in fuga, bensì di un complesso rapporto padre/figlio.

Che Julia Ducournau sapesse girare lo aveva già dimostrato ben prima di Titane. Stupisce sempre, però, vedere come questa regista sia al suo secondo lavoro, ma già così consapevole del mezzo cinematografico. In veste di sceneggiatrice, realizza un prodotto che è davvero suo, solido nelle idee e negli sviluppi. In Raw dirigeva con maestria un piano sequenza di una festa di matricole universitarie che sembrava quasi una bolgia infernale. In questo film, invece, si avvale della stessa tecnica per esplorare un autosalone fatto di motori, di macchine e di corpi che già flirtano e si strusciano contro di essi. Questo anticipa già un certo tipo di legame che verrà poi approfondito nel corso del film. Dal punto di vista fotografico, si compiono scelte audaci e interessanti, e tutti gli altri comparti sono di altissimo livello.

Le musiche sono martellanti e dosate con equilibrio. È interessante ritrovare anche in Titane un brano della nostra tradizione degli anni ’60, “Nessuno mi può giudicare”. Il pezzo viene inserito in un momento chiave del film e diventa dichiarazione di intenti da parte della regista. La scelta sembra quasi dire apertamente “tu spettatore sei entrato nel mio mondo, e qui le regole le detto io”. Allo stesso modo diventa esternazione del modo di affrontare la vita di Alexia, assolutamente libero e autonomo.

Una nota di merito va anche agli attori, assolutamente in parte e diretti alla perfezione. È interessante inoltre notare come le attrici femminili nei film della Ducournau si affidino completamente alla sapiente direzione della regista. Si abbandonano soprattutto fisicamente in termini di nudità esplicita, dimostrando una evidentee  completa fiducia nella sua esperienza e nella sua umanità. Tra tutti Agahte Roussell, che ci regala un ruolo intenso e complesso, Vincent Lindon nel mascolino ma delicato ruolo di Vincent. Non manca inoltre la ormai fidata fin dal primo cortometraggio (Junior, 2011) Garance Marillier, nei panni di Justine. Per gli amanti dei collegamenti all’interno delle filmografie di un autore, fa sorridere notare come le due ragazze abbiano gli stessi nomi delle sorelle del precedente Raw.

Titane ha il pregio di essere uno di quei film che nel bene o nel male sono difficili da dimenticare. Una volta finito, continuerà a scalciare e dimenarsi dentro di voi come il bambino che porta in grembo la protagonista e destinato a restare impiantato nella mente come la placca di metallo da cui tutto è partito. Un film complesso e coraggioso, che ha meritatamente vinto un riconoscimento come la Palma d’Oro.

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